di Domenico D’Amico
L’incontro di dopodomani a San Francisco tra Biden e Xi Jinping, in occasione dell’Asia Pacific Economic Cooperation (Apec) che durerà tutta la settimana, potrebbe anche non segnare una svolta nei rapporti geopolitici tra Usa e Cina, ma ha comunque alto valore simbolico e commerciale: troppi e troppo stretti sono i legami tra le due superpotenze per poter essere messi in crisi, specie da parte cinese. Un risultato concreto sarà però sicuramente la richiesta di Washington di riattivazione del canale di comunicazione tra gli eserciti, che non ‘si parlano’ da un anno, dopo la chiusura cinese a seguito della visita della Pelosi a Taiwan del 2022.
Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno messo in mostra buona volontà e sono stati molto attivi, prodigandosi in missioni diplomatiche e commerciali di altissimo profilo: su tutte le visite del capo della diplomazia americana Blinken e quello del Tesoro Yellen. Ma più di recente di rilievo sono state anche le visite in Cina dei vertici aziendali di Apple con Tim Cook, di Tesla con Elon Musk e di JP Morgan Chase’s con Jamie Dillon. Molte le visite anche dei vertici cinesi negli Stati Uniti: l’ultima il 26 ottobre è stata quella del Ministro degli Esteri cinesi Wang.
La Cina ha forte interesse a mostrarsi come solido mercato di riferimento per la grande comunità d’affari statunitense, anche in ragione della forte caduta delle esportazioni cinesi in America e in generale nel mondo (-12%), del forte calo degli investimenti diretti esteri in Cina e dell’embargo imposto da Washington a Pechino su materiali sensibili come i chip per l’intelligenza artificiale: per questi motivi in molti hanno cominciato a parlare anche di crisi del Dragone.
In questo senso di buon auspicio sarebbe una cena tra la delegazione cinese e Xi Jinping e il gotha della comunità d’affari americana, organizzata dal Council of Foreign Relations, dalla Camera di Commercio statunitense e l’Asia Society: una sorta di nuovo punto di partenza, dopo le burrascose relazioni degli ultimi anni.
E’ stata invitata a San Francisco anche una delegazione russa, guidata dal vice premier Overchuck, stante l’impossibilità di viaggiare per Vladimir Putin: inevitabile pensare che tra Stati Uniti e Russia si parlerà anche di medio-oriente e di Ucraina; non mancano in questo senso altri segnali di dialogo continuo tra le parti, con il vice ministro degli esteri russo che, pur minacciando un qualche taglio nelle relazioni diplomatiche con Washington, non ha nascosto continui dialoghi tra le parti in paesi terzi. In questi giorni poi ben due ex capi della Nato, ovvero l’ex ammiraglio americano James Stavridis e Anders F. Rasmussen, hanno avanzato ipotesi che includono cessioni di territori ucraini alla Russia, con un’Ucraina membro, in qualche modo, della Nato. Il Washington Post da parte sua ha avanzato ipotesi di responsabilità, nella distruzione dei gasdotti Nord Stream, da parte di un colonnello ucraino, in coordinamento il capo di stato maggiore Zaluzhny: criptico segnale di uno scaricare i vertici di Kiev da parte di Washington? A questo si aggiungono i sostanziosi tagli di budget del sostegno militare di Washington verso Kiev: tutti segni di inevitabili negoziati. D’altronde già Vladimir Putin aveva parlato di ‘cambiamento di toni’ da parte americana. E gli Stati Uniti hanno conseguito i loro obiettivi: Europa ridotta a cagnolino scodinzolante e Ucraina totalmente vassalla e piena di debiti verso le banche americane.