di Margherita Furlan
Intervento alla tavola rotonda ATTRAVERSO LA FRONTIERA, forum ‘LA NUOVA SCACCHIERA’, 2 dicembre 2023, Roma
Dopo l’inizio della crisi israeliana, siamo sull’orlo di una reazione a catena che potrebbe incendiare in primis il Medio Oriente e successivamente il mondo intero. In seguito al fallimento dell’azione militare della NATO in Ucraina, uno dei Deep State statunitensi potrebbe aver pensato, in crisi di dollari e di petrolio, che è giunto il momento che l’incendio divampi. Finita una guerra se ne fa un’altra sembra essere il motto che detta Washington da almeno 22 anni. A pagarne le spese però è anche il popolo israeliano, oltre a quello palestinese, questa volta probabilmente entrambi ingannati da feroci brame di potere. Tutti oggi sono sacrificabili. E’ l’ultima chance, forse in tutti i sensi, per Washington, che ha tre candidati presidenti filo israeliani, prima dello scontro finale con Pechino. E a muoversi ora sulla scacchiera internazionale è la magica pedina del Medio Oriente, cuore del settimo sigillo, e il nuovo, tremendo, nemico da abbattere è l’Iran, alleato di Russia e, per l’appunto, Cina. Stiamo entrando dunque in un nuovo ciclo storico. La crisi strutturale dell’ex impero americano eccita i protagonismi dei Paesi della nuova allargata alleanza dei Brics, le inquietudini degli ambigui occidentali di periferia quali noi italiani e altri europei appariamo alla torre di controllo di Washington, le aspirazioni di potenze medie e piccole, rivalutate da un autunno dalla massima tensione. Ovunque un’aria di animazione sospesa, in attesa di chissà quale catastrofe, cui solo forse seguirà catarsi. Il vuoto di potere – reale o percepito – sommuove la tettonica delle strategie geopolitiche. Sulla scena del teatro spuntano o riemergono nuovi e antichi soggetti che raccontano storie di umiliazioni da redimere, offese da sanare, riscatti promessi. I paradigmi coloniali e post coloniali sono esauriti. L’illusione di poter trattare chiunque come bambinoni bisognosi di patronati, riflessa nella certezza di avere a che fare con tribalismi assortiti da incentivare per confermarsi superiori, cade di fronte ai nazionalismi locali che propongono concetti d’identità differenti, ma più vicini alle verità dei popoli. Qui oggi si gioca la scommessa del futuro, lungo un percorso costellato anche di putsch e di guerra a varia intensità.
Oggi suona la campana per tutti, per la Francia, che perde il rango di potenza mondiale, per la Turchia, che può perdere, insieme alla Siria, il potere della mediazione, ma anche per l’Italia, Paese che ha abdicato a qualsiasi strategia dopo la doppia fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica, facce esterna e interna della stessa sterilizzazione geopolitica. Forse oggi possiamo meglio comprendere perché a Washington, dopo l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite svoltasi lo scorso settembre, Giorgia Meloni non abbia partecipato alla cena di gala offerta da Joe Biden. L’Italia, con la crisi medio orientale in corso, è stata destinata al silenzio, politico, energetico e militare, nient’altro che un triste protettorato pronto ad accogliere i migranti che arriveranno. Israele oggi possiede almeno 200 testate nucleari, dispone di una triade nucleare, a tutti gli effetti è il sesto arsenale atomico più grande al mondo. E sta per realizzare, a 50 anni esatti dalla guerra dello Yom Kippur, il cosiddetto “Piano Parcheggi” (che trasforma il territorio della Striscia di Gaza in una “grande sosta per auto”). Dopo che, nel giorno del compleanno di Vladimir Putin, 7 ottobre, le armi inviate all’Ucraina sono finite nelle mani di Hamas, o di chi per conto di Hamas, pagate da qualcuno che non è certo amico di Mosca, o dei BRICS, e che non può nemmeno essere Teheran che ha appena siglato un accordo con Washington. Washington, o comunque il mondo anglosassone, che potrebbe essere ancora una volta la madre di tutti gli inganni.
Il caos regna per ora imperante, pronto a precedere un ordine già disegnato sulle carte degli antichi padroni universali e che si scontra ora con altre mappe multipolari. L’obiettivo da abbattere è ora il mondo policentrico che si va costruendo e da ciò nasce l’operazione israelo-palestinese, che sfrutta, tra l’altro, le emozioni generate nell’opinione pubblica dal genocidio palestinese in corso, per continuare ad abituare le menti alla tragedia e all’emergenza della follia e della guerra. Per capire ciò che succede occorre quindi cambiare punti di vista e di osservazione. Lasciare il vecchio e l’obsoleto unipolarismo per ritornare a essere Umani. Il mondo ora è infatti multipolare. A riconoscerlo è persino Matteo Renzi, di colpo divenuto esperto di politica estera nei salotti televisivi, se così si possono definire, di rete 4, Giuseppe Brindisi. La notizia è di quelle epocali. Jalta non esiste più. Questa volta è ufficiale e alla luce del Sole.
Egitto, Iran, Etiopia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti entreranno a far parte dei BRICS dal 1° gennaio 2024, durante la presidenza russa dell’organizzazione oramai più importante al mondo, contro cui l’ex potente Impero cerca invano, attraverso la NATO e i servizi d’intelligence, di esalare gli ultimi respiri, portando con sé, tra i rantoli, tutti i Paesi che hanno a Washington ceduto sovranità e dignità, in cambio dello snaturamento dell’essere umano.
Nella dichiarazione finale congiunta del 15° summit dei BRICS svoltosi a Johannesburg, in Sudafrica, il 23 e il 24 agosto scorsi, i cinque Paesi fondatori dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) hanno inoltre ammesso Egitto, Emirati Arabi e Bangladesh nella Nuova Banca d’Affari dell’organizzazione. Il nuovo blocco è dunque realtà. Dieci Paesi (non più undici, viste le elezioni recenti in Argentina), tra cui i tre principali produttori di petrolio al mondo, il 37% del PIL mondiale, l’Iran e l’Arabia Saudita, audacemente insieme per un nuovo corso della Storia, il Sud globale, ricco di minerali e materie prime ancora intatte, con le sue aree strategiche, compreso il Corno d’Africa, rappresentato per la prima volta nei consessi internazionali.
Per Putin, intervenuto in videoconferenza e che quindi non è stato possibile fermare da una sentenza della Corte Penale Internazionale, oramai obsoleta e rappresentata anche da un giudice italiano, “la maggioranza mondiale è sempre più stanca di ogni tipo di pressione, di ogni tipo di manipolazione, ma è pronta a una cooperazione onesta, paritaria e reciprocamente rispettosa. È da questa posizione che i BRICS affrontano lo sviluppo di relazioni multiformi con tutti gli Stati, nonché con le strutture d’integrazione regionale, tra cui la CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), l’EurAsEC (Comunità Economica Eurasiatica), la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), l’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico), la Comunità dei Caraibi, il Consiglio di Cooperazione degli Stati Arabi del Golfo.” Secondo Putin, la prossima priorità riguarda la questione della moneta unica dei BRICS, materia complessa, “ma sui cui è necessario muoversi con rapidità e con determinata precisione”. Per il presidente cinese, Xi Jinping, si è fatta la storia con un nuovo punto di partenza per la cooperazione globale. Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, negli stessi giorni al Meeting di Rimini ha tentato invece di spiegare quello che ha definito “l’impegno del governo italiano verso il continente africano” con queste parole: “Rimuovere l’approccio coloniale, che per molto tempo ha condizionato la storia dei rapporti dell’Italia con i Paesi africani, presentare il cosiddetto Piano Mattei per l’Africa come sezione italiana del piano Marshall europeo per vincere la sfida delle migrazione e dell’instabilità in quel continente, sul cui fuoco soffia la Russia con le milizie Wagner”.
Un’Italia, questa, a Rimini rappresentata dall’attuale capo della Farnesina, già colonia statunitense nel cuore del Mediterraneo, oramai ridicola, polverizzata, in un nuovo corso storico, dalla sua stessa ignavia e slealtà verso i martiri che hanno dato la vita per il fu Belpaese.
Nell’altra sponda del Mar Mediterraneo, l’Africa invece ha deciso di entrare in un nuovo ciclo storico. L’impatto del neoliberismo sul continente africano ha contribuito a scavare diseguaglianze disumane tra masse affamate e minime élite ultramiliardarie, con selvaggia privatizzazione d’istituzioni e servizi, dove la corruzione è la norma. Ma nell’ultimo triennio sono caduti Ciad, Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger, Gabon. Tutti Paesi dell’Africa francofona. Eventi questi che un tempo sarebbero stati registrati nelle pagine interne dei media globali – a eccezione di quelli francofoni – stanno ora concentrando un fascio di luce non troppo effimera su entità di cui la maggioranza degli occidentali ignorava l’esistenza. In Francia è emergenza nazionale. “Viviamo in un mondo di pazzi”, ha sovranamente stabilito Emmanuel Macron davanti ai suoi ambasciatori, prima di annunciare, il 24 settembre scorso, la fine della ‘Françafrique’, una nuova Suez. La crisi del 1956 provocò a Parigi la fine della quarta Repubblica e il ritorno del generale De Gaulle. Oggi il doppio scacco di Niger e Gabon suona la campana per la Francia, che perde il rango di potenza mondiale. Lo smarrimento francese e l’atonia americana dovrebbero però convincerci che la campana suona anche per l’Italia, anch’essa un tempo presente in Africa. Anche negli ultimi decenni, in Etiopia, la Valle dell’Omo ha molto attirato le attenzioni del fu Belpaese. A cominciare dal 2004, quando la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina approvò (in condizioni a dir poco controverse) il più grande credito d’aiuto mai erogato nella storia del fondo rotativo per lo sviluppo. Furono stanziati 220 milioni di euro per la costruzione della contestata diga Gibe II proprio sul fiume Omo. Successivamente, nel luglio del 2006, il governo etiope affidò alla società italiana Salini Costruttori, oggi Salini Impregilo – che si era già aggiudicata la costruzione delle dighe Gibe I e Gibe II -, la realizzazione del più grande progetto idroelettrico mai concepito in Africa, la diga Gibe III: un salto di 240 metri e una potenza di 1870 MW, per un costo complessivo di 1,4 miliardi di euro. Il contratto fu concluso senza una gara d’appalto, in violazione delle leggi etiopi, che permettono la trattativa diretta solo in casi d’imprevedibile urgenza. Tuttora gli unici contratti a trattativa diretta in Etiopia riguardano la Salini Impregilo. Tutti gli altri progetti idroelettrici, perfino la diga di Tekeze costruita dai cinesi, sono stati oggetto di gara d’appalto. Il nucleo tecnico della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina, prima dell’erogazione del credito per la costruzione della diga Gibe II, aveva tuttavia espresso parere negativo, rilevando l’anomalia dell’affidamento del contratto a trattativa diretta, oltre che l’assenza di uno studio di fattibilità, la mancanza di previsione dei costi delle misure di mitigazione d’impatto ambientale, l’insufficiente attenzione alle procedure di gestione e controllo del contratto, ma soprattutto il tasso di concessionalità del 42,29%, assolutamente non in linea con la situazione di criticità debitoria dell’Etiopia. Cosa del resto su cui si era espresso anche il ministero dell’Economia e delle Finanze, esplicitando forte preoccupazione per un prestito di tale portata concesso a un Paese HIPC (Heavily Indebted Poor Countries). L’Italia, infatti, al momento dell’approvazione del prestito, era in procinto di cancellare all’Etiopia 332,35 milioni di euro di debito bilaterale. In effetti la cancellazione fu ratificata, ma nel gennaio del 2005, esattamente tre mesi dopo aver reindebitato il Paese per una cifra di poco inferiore. Nonostante l’Italia sia più volte stata ammonita dall’OCSE per la cattiva abitudine dei cosiddetti “aiuti legati” (ovvero condizionati alla fornitura di beni e di servizi di provenienza italiana), tale architettura in questo caso si spinse ben oltre, rappresentando un vero e proprio aiuto commerciale camuffato da aiuto allo sviluppo contro la povertà. Così nel gennaio del 2007 la magistratura di Roma aprì un procedimento penale a carico del ministero degli Affari Esteri. Ma nessun ufficiale giudiziario fino ad oggi ha mai varcato gli uffici della Farnesina per verificare i documenti. Contemporaneamente, la Campagna per la riforma della Banca Mondiale (CRBM) avviò un’indagine in Etiopia per fare luce sull’intera questione. Ne scaturì un dossier con interviste a pubblici ufficiali, esponenti delle comunità locali e persino del mondo accademico. Lo scandalo fu talmente grande e così palese che la Banca europea per gli investimenti fu costretta a negare un finanziamento di 50 milioni di euro. In Italia, invece, pochi mesi dopo, l’ex-direttore generale della Cooperazione allo sviluppo, Giuseppe Deodato, venne promosso per meriti guadagnati sul campo e mandato a fare l’Ambasciatore in Svizzera, mentre il nuovo esecutivo (guidato da Romano Prodi e non più da Silvio Berlusconi) aprì alla possibilità di bissare, con un nuovo prestito per la diga Gibe III, senza dimenticarsi di approvare 12 milioni di euro per il completamento della diga di Bumbuna, in Sierra Leone, un altro buco nero a marchio Salini. L’Africa è una terra ricca, ma non certo per gli africani. Il caso degli impianti idroelettrici Gibe fornisce infatti interessanti spunti di riflessione sullo stato allarmante della cooperazione italiana, sulla debolezza delle istituzioni europee, sul connubio di interessi tra Paesi dalla democrazia difettosa (l’Etiopia come l’Italia), e solleva al tempo stesso molte domande sull’operato delle nostre aziende nei Paesi africani. Intorno alla Salini e alla storia di Gibe e delle altre dighe africane si muove evidentemente, come in una sorta di gioco di scatole cinesi, un indotto di società italiane, e non solo, che si scambia contratti, consulenze, appalti, personale. Questo è il cosiddetto “Sistema Italia”. D’altronde, l’ufficio di cooperazione in Etiopia è il più grande sul quale l’Italia può contare in giro per il mondo, se si eccettua l’Afghanistan, e a partire dal 2016 è entrata in gioco anche l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS) a cui s’intende concedere un margine d’azione maggiore. Ma, diga o non diga, oggi l’Etiopia allaccia alla rete elettrica meno del 6% della popolazione, mentre riempiendo il bacino della diga si è messo fine alle esondazioni naturali del fiume, senza rilasciarne altre artificiali sufficientemente idonee a ridare un sostentamento seppure minimo alle coltivazioni delle tribù locali. La diga ha sbarrato il corso centro-settentrionale dell’Omo e ha causato sia la riduzione del flusso del fiume che l’abbassamento del livello del lago Turkana, in Kenya, di circa due terzi, distruggendo così anche le riserve ittiche. Il drastico abbassamento del livello del lago compromette irreversibilmente le possibilità di sostentamento di almeno 300mila persone tra cui i Turkana, i Kwegu e i Rendille, che dal lago dipendono per la pesca e per l’acqua potabile. Si trovano senza più nulla. L’agricoltura è stata vietata e la riduzione dei campi utilizzabili per il pascolo porta le tribù a coprire lunghe distanze alla ricerca di terreni migliori e d’acqua per gli animali. Minore disponibilità di acqua significa inoltre non solo ridurre le aree coltivabili, ma anche variare l’ecosistema introducendo un lento quanto inesorabile processo di ritiro della foresta pluviale che rende, tra l’altro, le piogge meno abbondanti. Prima della costruzione della diga “la terra era piena di grano e di acqua alluvionale dal fiume Omo. Ora acqua e grano sono spariti e le tribù vengono trasferite in nuovi siti di reinsediamento. Dopo ci sarà la morte della culla dell’umanità”. Ad Addis Abeba, in Etiopia, Villa Italia, Ambasciata d’intatto stile mussoliniano, resta comunque il sopravvissuto simbolo di superflua ostentazione e arrogante imperialismo. Un simbolo, appunto, perché a decidere è l’Ambasciata americana ad Addis Abeba, secondo cui è incontrovertibile che Stati Uniti e Italia rimangano impegnati in Etiopia “più che mai”, per una moltitudine di ragioni, in primis geopolitiche. Il Paese subsahariano mira infatti lo sguardo verso Gibuti, sullo strategico Golfo di Aden, ed è la Nazione che al mondo maggiormente contribuisce alle cosiddette missioni di pace delle Nazioni Unite. A Washington d’altronde ha sede l’Amhara Association of America, il cui presidente, Tewodrose Tirfe, ha dichiarato che “la comunità etiope-americana sta finalmente comprendendo come funziona il processo democratico americano, e crede così di poter fare la differenza in Etiopia, a partire dallo Stato di Amhara”. La potenza del messaggio è nota e può aprire strade lastricate di dollari. Così proprio in questi giorni lo scontro nell’Amhara rischia di coinvolgere più di quaranta milioni di persone. Il premier Abiy Ahmed Ali, un uomo che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 2019, governa solo grazie all’Esercito. La pace siglata a Pretoria il 2 novembre 2022 tra governo federale e Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) per mettere fine al sanguinoso conflitto che ha coinvolto il Tigray, stabiliva il disarmo di tutti gli arsenali militari. Un punto fondamentale dell’accordo promosso, da Unione Africana e, guarda caso, Stati Uniti, che rimane lettera morta. Il commercio di armi deve proseguire e facilmente allargarsi al mondo per consentire una comoda fine dell’oramai decadente stile di vita americano, un tempo dichiarato “non negoziabile”, prima da Ronald Reagan, poi da George Bush senior. La guerra nel Tigray era figlia della volontà di Abiy Ahmed di porre fine al sistema del federalismo etnico, cioè di quel metodo di governo che ha retto gli equilibri interni etiopi con un sistema di governo decentrato, costruito su base etnica. Il fatto che la politica accentratrice di Abiy Ahmed non si sarebbe fermata al Tigray è diventato lampante pochi mesi dopo l’accordo, quando nel pieno del processo di smilitarizzazione della regione il governo etiope ha lanciato il piano per lo smantellamento delle Forze armate degli Stati federati per farle confluire nell’esercito nazionale, aprendo così la strada allo scontro con alcuni dei più fedeli alleati del governo durante la guerra: gli amhara. Non solo. A livello regionale, il dopo-Pretoria ha visto peggiorare i rapporti tra Addis Abeba e i suoi vicini. Questo principalmente a causa della questione dell’accesso al mare. A partire dalla scorsa estate, sono cominciate a circolare dichiarazioni attribuite ad Abiy Ahmed in merito al diritto/dovere dell’Etiopia di garantirsi un proprio accesso al Mar Rosso anche usando la forza se necessario. A ottobre il primo ministro ha esplicitato il concetto in un discorso ai parlamentari trasmesso dalla televisione nazionale: “Una popolazione di 150 milioni di persone non può vivere in una prigione geografica”. Immediata è stata la reazione sdegnata di Gibuti, Somalia ed Eritrea. Le dichiarazioni del premier etiope hanno così provocato una spaccatura tra Addis Abeba e i paesi rivieraschi e posto la militarmente più preparata Eritrea alla guida dell’alleanza dei cosiddetti “preoccupati”. In questo contesto, Asmara aggiunge benzina sul fuoco accusando Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, di fomentare il primo ministro etiope per portare avanti la propria agenda nella regione. A mediare ci penserebbe il principe saudita, Mohammed bin Salman, forte dell’avvicinamento a Teheran e a Pechino. Tel Aviv è a due passi quindi, ma qui le tensioni scivolano via, agli occhi del mondo, molto silenziosamente.
L’Etiopia ha invaso quindi il Tigray come Stato gregario dell’ex Impero americano, ma ha concluso la guerra come paese vicino alla Cina e prossimo all’adesione ai Brics. Ed è in questo contesto che gli Stati Uniti cercano di mettere il premier Abiy Ahmed sotto pressione, avvalendosi della leva economico-commerciale. L’Etiopia è infatti fuori dall’Agoa, l’accordo commerciale tra Africa e America da cui Addis Abeba è stata espulsa allo scoppio della guerra nel Tigray. A un anno dagli accordi di Pretoria, avanza così un nuovo conflitto nel Corno d’Africa che verrà venduto (o percepito) come identitario, ma che è squisitamente geopolitico. Le grandi potenze, impegnate sulla scacchiera della Guerra Santa, non sembrano volere scongiurarlo e i rischi restano esponenziali. La prossimità con la direttrice di Suez ne aumenta il potenziale distruttivo così come aggrava le ricadute umanitarie. Il Corno d’Africa, mentre Mosca è pronta a distribuire gratuitamente fino a 50mila tonnellate di cereali, non è mai stato così rovente. Ma nessuno ne parla.
In Etiopia, culla dell’umanità, nell’Afar Triangle, il 24 novembre 1974, il paleoantropologo Donald Johanson scoprì lo scheletro più completo di un antenato umano antico, un australopiteco di oltre 3,2 milioni di anni. La sera stessa aveva già un nome, Lucy, suggerito dalle note di “Lucy in the sky with diamonds” dei Beatles. In Etiopia, però, il reperto è conosciuto come Dinqinesh, che in lingua amharica significa “sei meravigliosa”.
Dal 2007 lo scheletro fossile e i reperti a esso associati furono esposti negli Stati Uniti in una mostra intitolata “L’eredità di Lucy: i tesori nascosti dell’Etiopia”. Lucy fu riportata in Etiopia solo nel 2013, quando l’Impero d’Occidente, già in decadenza, decise d’investire (anche) lì, nel cuore del Corno d’Africa, gli ultimi rantoli di una sopravvivenza ormai inane.
John Fitzgerald Kennedy aveva intravisto le basi per un mondo equo già nel 1963, quando disse: “La pace nel mondo, come la pace della comunità, non richiede che ogni uomo ami il suo prossimo; richiede solo che vivano insieme con reciproca tolleranza, sottoponendo le loro controversie a una soluzione giusta e pacifica.” Il 22 novembre dello stesso anno fu colpito alla testa mentre attraversava in macchina la città di Dallas. In Italia, a Milano, Aldo Moro, il 3 ottobre del 1959, esponeva pubblicamente il fine ultimo della politica: “Lo Stato democratico, lo Stato del valore umano, lo Stato fondato sul prestigio di ogni uomo e che garantisce il prestigio di ogni uomo, è uno Stato nel quale ogni azione è sottratta all’arbitrio e alla prepotenza, in cui ogni sfera d’interesse e di potere obbedisce a una rigida delimitazione di giustizia, a un criterio obiettivo e per sua natura liberatore; è uno Stato in cui lo stesso potere pubblico ha la forma, la misura e il limite della legge, e la legge, come disposizione generale, è un atto di chiarezza, è un’assunzione di responsabilità, è un impegno generale e uguale”. Il 9 maggio 1978 Aldo Moro fu ucciso, dopo 55 giorni di prigionia, con “un piano articolato” composto da “operazioni d’intelligence internazionali, trattative tra istituzioni e terroristi, patti con la malavita organizzata”[1]. L’ex presidente della Democrazia Cristiana scrisse in una delle sue ultime lettere a Benigno Zaccagnini, allora segretario del partito: “Pensateci bene cari amici, siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopodomani”. E quel dopodomani, in cui le tavole della legge sono scomparse, è qui; ora tocca a noi, ritorniamo umani, ridiamo il giusto significato al sangue dei nostri martiri.
[1] L’ultima notte di Aldo Moro, Paolo Cucchiarelli, edizioni Ponte alle Grazie, 2018