di Fabio Belli
Sfruttare la tecnologia per rendere più efficace la partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche.
È la tesi di Paolo Benanti, professore di Teologia presso la Pontificia università gregoriana, nonché presidente della Commissione AI delle Nazioni Unite per l’informazione. Secondo l’analisi, riportata dalla rivista Formiche, la nostra sarebbe sempre più un’esistenza computazionale piuttosto che una democratica tradizionale in quanto, secondo l’articolo, la capacità di agire nello spazio pubblico si sarebbe riconfigurata in forma digitale. La cosiddetta democrazia computazionale sarebbe dunque cosa buona in quanto in grado di garantire un aspetto che va molto di moda nel linguaggio globalista, ovvero l’inclusività dei cittadini nei processi democratici.
La pubblicazione fa inoltre un paragone con il primo decennio del secolo, conclusosi con le primavere arabe, giudicate un ottimo risultato per l’affermazione della volontà democratica tramite spazi digitali, e il decennio attuale dove l’avvento delle intelligenze artificiali starebbe di nuovo cambiando l’orizzonte. Un orizzonte che, al di là della tesi dell’articolo, non sembra necessariamente a beneficio della democrazia, quella vera.
La sfida, dunque, sembra quella di rendere il più democratico possibile il potere smisurato dell’Intelligenza artificiale, già di per sé ingovernabile, per far sì che il tutto non diventi un’inquietante e distopica oligarchia dominata dai soliti noti o, nel peggiore dei casi, da parametri algoritmici.