di Gionata Chatillard
È ufficiale da ieri la decisione dell’Unione Europea di aumentare i dazi sui veicoli elettrici di produzione cinese. Secondo Bruxelles, si tratterebbe di una misura necessaria per bilanciare i generosi sussidi con cui Pechino sostiene la propria industria automobilistica. Le imposte sulle importazioni aumenteranno così dal 10% attuale fino a quasi il 40%, a seconda dei casi. Le misure varate dall’Unione Europea colpiscono infatti in modo diverso i singoli produttori di veicoli elettrici, con l’obiettivo dichiarato di “garantire una concorrenza leale” nel mercato automobilistico comunitario.
In realtà, più che le questioni economiche, a pesare sulla decisione di Bruxelles c’è un contesto geopolitico sempre più conflittuale, con l’Occidente che, dopo essersi disaccoppiato dalla Russia, sembra voler fare altrettanto con la Cina, a costo di smontare quella stessa globalizzazione che fino a pochi anni fa era poco meno di un dogma incontestabile. Se ne sono accorti a Pechino, da dove sono partite accuse di “protezionismo” contro un’Unione Europea che ha deciso di lasciarsi alle spalle le regole di libero scambio sancite dai trattati internazionali. La Camera di Commercio Cinese a Bruxelles si è detta addirittura in stato di “shock”, esprimendo una “grave delusione” e un “profonda insoddisfazione” per i dazi annunciati dalla Commissione.
Tuttavia, a criticare la misura è stata anche la Germania, che ha fatto di tutto per evitare il giro di vite contro Pechino, interpretato da Berlino come un’ennesima mazzata per le aziende tedesche, già fortemente penalizzate dalla guerra in Ucraina. A storcere il naso, anche Svezia e Ungheria, mentre il Governo italiano ha invece salutato con “soddisfazione” l’annuncio dei dazi, convinto che possano servire a “tutelare la produzione europea”. Meno contenti saranno coloro che, spinti dalla propaganda green a comprare un veicolo elettrico, vedranno andare alle stelle il prezzo delle macchine cinesi, le uniche attualmente sostenibili per le tasche dei meno abbienti.
A tremare, però, è anche il settore agricolo comunitario. Pechino aveva già avvertito che avrebbe risposto senza indugi all’eventuale imposizione di dazi, e la mossa più scontata potrebbe essere proprio quella di tassare le importazioni di cibo dall’Unione Europea, carne di maiale e latticini in primis. Due tipi di alimenti che da soli valgono 1/4 delle esportazioni agroalimentari dei Ventisette al paese asiatico, raggiungendo un valore di quasi 5 miliardi di euro all’anno.
Le brutte sorprese per Pechino, tuttavia, non finiscono qui. Mentre a Bruxelles confermano i dazi sui veicoli elettrici, a Washington preparano infatti ulteriori sanzioni contro le aziende che collaborano con la Russia, molte delle quali si trovano proprio in Cina. In questo caso, a essere colpito sarà soprattutto il settore dei microchip, fondamentale per le sue applicazioni nel campo della tecnologia militare. La Casa Bianca riesce in questo modo a prendere due piccioni con una fava, mettendo i bastoni fra le ruote sia a Mosca che a Pechino, in un momento in cui inizia a essere sempre più difficile distinguere le misure rivolte contro un paese piuttosto che contro l’altro, come se gli Stati Uniti stessero ormai sparando restrizioni all’impazzata contro il mondo multipolare nel suo complesso.
Fra queste, spicca la decisione di sanzionare la Borsa di Mosca, con l’obiettivo di limitare la quantità di denaro che fluisce dentro e fuori dalla Russia, ma anche di aumentare il rischio per le istituzioni finanziarie di paesi terzi che intendano operare nella Federazione. Una misura a cui il Cremlino ha immediatamente risposto decretando il blocco degli scambi in dollari e in euro su quel mercato azionario. Anche se, a dire il vero, lo yuan ha già superato la moneta americana come valuta più scambiata nella Borsa di Mosca, confermando che Russia e Cina non solo sanno come rispondere alle sanzioni occidentali, ma sono anche sempre più unite per far fronte alla minaccia che arriva da Ovest.