di Gionata Chatillard
Si è concluso con la richiesta di una tassa globale sul carbonio il vertice africano sul clima tenutosi questa settimana a Nairobi. L’incontro -sponsorizzato non solo dall’Unione Africana, ma anche da Bill Gates e dai Rockefeller- è servito per allineare ulteriormente i cosiddetti “paesi in via di sviluppo” ai criteri ambientalisti tanto perorati dai Governi occidentali. Nella dichiarazione finale del summit si chiede infatti di penalizzare l’uso dei combustibili fossili aumentando le imposte su aviazione e trasporto marittimo. “La decarbonizzazione dell’economia globale”, si legge poi nel documento, non solo servirà a combattere il cambiamento climatico, ma contribuirà anche all’ “uguaglianza” e alla “prosperità condivisa” dei popoli.
Dichiarando guerra al carbonio, i paesi africani sanno in realtà di toccare il tasto giusto per attrarre capitali occidentali. Il Governo keniano, anfitrione dell’evento, ha infatti dichiarato che durante l’incontro sono stati presi impegni per 23 miliardi di dollari volti a finanziare progetti ambientalmente sostenibili. In prima linea c’era ovviamente l’Unione Europea, che proprio attraverso le politiche green spera di poter riaffermare la sua influenza sul continente africano. Tanto che a Nairobi si è recata personalmente Ursula von der Leyen, che oltre a proporre dei green bond globali, ha anche annunciato di voler mobilitare grandi capitali per sostenere i paesi della regione, con l’obiettivo di ottenere in cambio preziose risorse naturali.
Una partita, questa, in cui però giocano anche Cina e Stati Uniti, ovvero i due principali inquinatori al mondo, che a loro volta hanno promesso decine di milioni di dollari in finanziamenti dichiarati eco-sostenibili. Così, mentre il rappresentante della Repubblica Popolare dichiarava che il suo paese è “sempre più preoccupato per l’incertezza del cambiamento climatico”, l’inviato speciale della Casa Bianca, John Kerry, sosteneva che Washington e Pechino potrebbero “unirsi” proprio intorno alla questione ambientale. Una questione che secondo il rappresentante statunitense costituirebbe una vera e propria “minaccia universale”, e proprio per questo andrebbe quindi affrontata con soluzioni globali, se non direttamente globaliste.