di Gionata Chatillard
“La Bolivia sfida il dominio globale del dollaro con lo yuan”. Così titolava la stampa internazionale la scorsa estate, dopo che il paese sudamericano aveva deciso di seguire i passi di Brasile e Argentina iniziando a usare la valuta cinese per il commercio estero. Una scelta dettata in parte dalla carenza interna di dollari, che sta complicando le operazioni di import-export della nazione andina. Per questa ragione, pochi giorni fa il presidente Luis Arce ha chiesto a tutte le banche private del paese di partecipare a un incontro con gli inviati dei due maggiori istituti di credito cinesi, a cui il Governo boliviano ha deciso di spalancare le porte proprio per ridurre la dipendenza dal dollaro statunitense.
Si tratta dell’ennesimo segnale di una tendenza che sembra ormai inesorabile, ma che comunque non cambierà il panorama internazionale delle transazioni commerciali dall’oggi al domani. La dedollarizzazione avanza, ma lo fa lentamente. Gli stessi imprenditori boliviani sanno che con lo yuan non sarà così facile fare affari all’estero. La Banca Centrale della nazione andina ha infatti parlato del “grande potenziale” della moneta cinese, ma ha anche ricordato che questa è solo la 5ª valuta più utilizzata nel commercio internazionale. A fare la parte del leone è infatti ancora il dollaro, mentre lo yuan copre appena il 2% delle transazioni globali, e questo nonostante la Repubblica Popolare sia il più grande esportatore del pianeta.
In realtà, la valuta che sta pagando il prezzo più alto in questo tornante storico non sembra essere tanto il dollaro, quanto l’euro. Fortemente penalizzata dall’interruzione del commercio con la Russia, la moneta del Vecchio Continente continua infatti a perdere terreno a vantaggio della valuta statunitense. Se negli ultimi anni gli scambi commerciali realizzati tramite il sistema SWIFT in euro rappresentavano dal 30% al 40% del totale, questa cifra è scesa recentemente anche sotto il 12%. Una situazione simile a quella vissuta durante la crisi del debito europeo iniziata nel 2010 e poi magicamente risolta dal famoso “Whatever it takes” di Mario Draghi. Non a caso, i campanelli d’allarme su titoli di Stato e spread sembra abbiano già ripreso a suonare.