di Gionata Chatillard
Destra, sinistra o centro, cambia poco. Qualunque sia il colore politico del Governo di turno, l’Italia sembra comunque destinata a proseguire il cammino tracciato sul panfilo Britannia nel 1992, una stagione di privatizzazioni che dura ormai da 3 decenni abbondanti. Dopo l’ENI, la prossima vittima delle svendite di Stato sarà quindi Poste Italiane, società che nel 2018 veniva definita da Giorgia Meloni come un “gioiello” che avrebbe dovuto “rimanere in mano pubblica”. Parole che l’attuale presidente del Consiglio sembra essersi -almeno in parte- rimangiata, se è vero che il Governo prevede di cedere fino al 13% della partecipata.
Le voci di corridoio si rincorrevano ormai da giorni, ma ad annunciarlo ufficialmente ci ha pensato ieri la sottosegretaria del Ministero delle Imprese Fausta Bergamotto, durante un’interrogazione nella Commissione Trasporti della Camera dei Deputati. Secondo il suo resoconto, l’intenzione del Governo sarebbe quella di mantenere comunque la maggioranza assoluta della società, dal momento che attualmente lo Stato controlla il 65% delle quote.
Si tratta, in ogni caso, di una decisione che potrà aprire la porte alla futura cessione di altre quote delle Poste. Un ennesimo passo in avanti nel processo di dismissione del patrimonio pubblico italiano. Si prevede che la vendita del 13% possa portare nelle casse dello Stato quasi 2 miliardi di euro, che dovrebbero contribuire a diminuire l’entità dell’enorme debito pubblico italiano. Ma a che prezzo? Quello di perdere quote di una società che dà lavoro a 140.000 persone, gestisce 500 miliardi di euro di risparmi degli italiani e ha una rete di 13.000 sportelli che, oltre a svolgere le proprie funzioni specifiche, sono diventate col tempo un vero e proprio presidio statale nei comuni più piccoli e remoti, già scaricati dalle grandi aziende private in quanto poco appetibili dal punto di vista economico.