Nei primi giorni dell’anno, mentre ci si preparava a quello che è stato definito l’assalto del Congresso statunitense, iniziato con una manifestazione pacifica in sostegno dell’ex inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, il noto account Twitter da 46mila follower BlueSkyReport buttava il proverbiale sasso nello stagno: “Tutte le strade portano a Roma. L’Italia ha interferito con le elezioni americane. Diamo prima un’occhiata ai possibili giocatori coinvolti. Obama e l’ex premier dell’Italia, Matteo Renzi”. Negli stessi giorni venivano gettati nel calderone della rete da Bradley Johnson, auto definitosi ex agente della CIA e oggi tra i commentatori del network televisivo Oann (One America News Network), il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione europea, l’agenzia Leonardo, i servizi segreti italiani, la CIA, l’MI6. Michael Flynn, ex Consigliere USA per la Sicurezza Nazionale, coinvolto nel Russiagate e graziato da Trump, ha pure aggiunto del suo. E un altro personaggio legato al Russiagate – e in seguito graziato anche lui da Donald Trump – aveva già negli anni scorsi tirato in ballo Matteo Renzi, “usato da Barack Obama per attuare qualche colpo basso nei confronti di Trump”: si tratta di George Papadopoulos, ex consigliere di politica estera di Trump nelle elezioni presidenziali del 2016, che, attraverso un oscuro professore maltese della sorosiana Link University di Roma, Joseph Mifsud, ricevette il famoso “dirt” su Hillary Clinton, sotto forma di migliaia di email hackerate. Fu questo l’atto clou di quella che Papadopoulos chiama letteralmente una “cospirazione” architettata dai nemici di Trump – che lui identifica collettivamente come Deep State – allo scopo di incastrarlo con quello che poi, impropriamente, si chiamerà Russiagate. Un piano che non sarebbe stato possibile, sottolinea Papadopoulos, senza la collaborazione dei servizi segreti italiani, britannici e australiani. La spy story non ottiene però le prime pagine dei giornali: i fili che s’intrecciano nei meandri oscuri del sottobosco della politica sono troppo difficili da rintracciare, da analizzare e da verificare; soprattutto non interessano alle stanze del nuovo mercato giornalistico, divenuto “leale all’editore”, e non più “fedele alla notizia”.
Nel frattempo, il 20 gennaio l’ex senatore del Delaware ed ex vice di Barack Obama, Joe Biden, dinanzi a 200mila bandiere, a Washington, senza pubblico festante ma protetto da 25mila uomini dell’esercito statunitense lì schierati, giurava sulla Costituzione degli Stati Uniti d’America. E’ il 46esimo Presidente della potenza atlantica. A Roma, nelle stesse ore, l’ex presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, saliva al Colle, privo della maggioranza in Senato: Matteo Renzi iniziava a far saltare i voti del suo partito, Italia Viva, che, stando ai più recenti sondaggi, conta per un 2% circa dell’elettorato italiano. Dopo giornate altalenanti, il 2 febbraio, il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, conferisce a Mario Draghi l’incarico di formare un nuovo governo, dopo la fine del Conte bis.
Mario Draghi, neopensionato governatore della Banca Centrale europea, ha accettato l’incarico, dopo che sul Financial Times il 25 marzo 2020 aveva scaldato i motori con un titolo potentissimo: We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly (Siamo di fronte a una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza). Cosa pensare davvero di questo Draghi che mette in campo un linguaggio di stampo keynesiano (il Keynes delle celeberrime considerazioni su Le conseguenze economiche della pace del 1919) dopo essere stato per decenni attento “custode dei cancelli” del credo ultraliberista egemone? E’ un Draghi che ritorna alle origini, giovane assistente del professor Federico Caffè, uno dei padri del keynesismo italiano, dopo una brillante tesi di laurea su “Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio” discussa con lui relatore alla Sapienza e premiata magna cum laude? O è il Draghi della sua seconda (molto più lunga) vita, spesa nel cuore delle roccaforti finanziarie globali?
Certo, il suo curriculum accademico è ragguardevole (nel 1981 ad appena 33 anni è ordinario di Economia e politica monetaria a Firenze), ma è l’altro, quello finanziario, sicuramente molto più denso, e “visibile”, a segnarne il profilo. Ed è un profilo che sicuramente con gli ideali keynesiani della giovinezza ha assai poco a che fare. Incomincia infatti presto a mettere le mani nella “rozza materia” del capitalismo reale, come grand commis di Stato: dal 1991 al 2001 è Direttore Generale del Ministero del Tesoro chiamatovi da Guido Carli (ministro del VII governo Andreotti) e poi riconfermato da tutti i governi successivi: Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema. In questa veste promuove e gestisce da protagonista la lunga serie di “privatizzazioni selvagge” dell’apparato pubblico italiano (IRI, Telecom, Comit, Credit, Eni, Enel, etc) per un totale di 182.000 miliardi di lire. Fece scalpore, allora, la notizia dell’incontro avvenuto nel 1992, proprio all’inizio di quel processo di privatizzazioni, a bordo del panfilo HMY Britannia della Regina Elisabetta, con alti esponenti del mondo finanziario internazionale, nel corso del quale – fu riferito – Mario Draghi si dichiarò perfettamente consapevole del fatto che un tale intervento avrebbe “indebolito la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale”, ma che tuttavia lo riteneva “inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea”. Dieci anni (nel corso dei quali fece sottoscrivere al Tesoro una serie di prodotti derivati che si riveleranno assai onerosi per la nostra finanza pubblica), prima di passare, nel gennaio del 2002, al vertice della banca d’affari americana Goldman Sachs con la carica di Vice Chairman e Managing Director per le strategie europee e, dal 2004 come membro del Comitato esecutivo del gruppo (lo stesso che proprio in quel periodo, rifilò alla Grecia un pacchetto degli stessi prodotti derivati a suo tempo sottoscritti dall’Italia, che avrebbero dovuto permettere alla fragile economia ellenica di entrare in Europa e che si riveleranno, nel decennio successivo, tossici). Poi, come spesso accade, per effetto delle cosiddette “porte girevoli” che regolano le traiettorie all’interno dell’oligarchia globale, nel 2005 Draghi approda come Governatore alla Banca d’Italia, dove resterà fino al 2011, quando passerà a dirigere la BCE.
Ma questa è già cronaca nota. Di lui ricordiamo la feroce “letterina”, firmata come Governatore entrante insieme al Governatore uscente Jean-Claude Trichet, in cui si intimava al governo italiano, come misure improrogabili per “ripristinare la fiducia degli investitori”: “una profonda revisione della pubblica amministrazione”, “privatizzazioni su larga scala” compresa “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali; […] la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari; […] la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale; […] criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” e dulcis in fundo “riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali”. Fu sua, d’altra parte, l’idea del “fiscal compact“ (“una revisione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da risultare credibili”) che si materializzerà nel 2012 con la sottoscrizione di una versione ulteriormente indurita del Patto di Stabilità istituito col Trattato di Maastricht (che Draghi consacrerà in un’intervista al “Wall Street Journal” con queste parole: “Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato”). Suo è il fatidico Whatever it take con cui, a detta di tutti, nel luglio del 2012 salvò l’Euro sotto attacco dalla speculazione internazionale. Ma ciò non basta a far dimenticare la mattanza sociale di tre anni dopo, nel luglio del 2015 a danno della Grecia e del suo popolo: il vae victis intimato dall’Eurogruppo e sancito dalla Commissione, a cui la BCE aggiunse il proprio peso da 90, tagliando i flussi di liquidità d’emergenza alle banche greche come punizione per aver osato indire un referendum contro i diktat europei. Si pensi alle file di anziani, ad Atene, davanti ai bancomat prosciugati, non diverse da quelle di oggi, volti prossimi al fine-vita, davanti ai reparti ospedalieri in cui scarseggiano i medicinali, come gli infermieri. L’ordine di tagliare l’ossigeno alla ribelle Grecia arrivava dall’ufficio di Draghi, ai piani alti dell’Euro Tower.
Il suo editoriale sul Financial Times, quello di quasi un anno fa, è il discorso di un uomo consapevole della portata dirompente dell’emergenza, non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale. Parla, come Keynes esattamente un secolo fa, delle conseguenze paragonabili a quelle “di una guerra”. E del fatto che “le guerre […] si finanziavano attingendo al debito pubblico”. Apre così una prima breccia nel muro dell’austerity – dichiara cioè aperta una “nuova era”, per così dire, in cui appare inevitabile “un cambio di mentalità”: “Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato”, scrive. E anzi si spinge più in là, sul terreno specifico che gli compete, quello del ruolo delle banche: “Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse divengono veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti. Né la regolazione né le regole sulle garanzie devono intralciare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci delle banche a questo scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito dell’azienda che le riceve ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette”.
Sono le parole dietro le quali si è immaginato da molti commentatori che si profilasse una vera e propria “rivoluzione”. Ma è lecito chiedersi: è vera svolta? Aldilà degli aspetti emotivi del messaggio e dei richiami alle tragedie degli anni Venti e Trenta innescati dal mancato appuntamento con la Storia dei leader democratici di allora, quello evocato dalla presa di coscienza del passaggio da un’economia di pace a un’economia di guerra è davvero un “cambio di mentalità”? O, meglio, una “rottura di paradigma”, che seppellisce il dio fallito del recente passato: la furia privatistico-mercatistica dell’ultimo quarto di secolo? L’accumulazione privata come unica leva dello sviluppo economico e esclusiva regolatrice dell’ordine sociale? La funzione del “pubblico” come variabile dipendente dell’interesse privato? Analizziamo bene le espressioni utilizzate da Draghi: c’è un passaggio centrale nel suo ragionamento, quasi una sorta di “cerniera”. Subito dopo aver parlato dell’imperativo di “intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura” e subito prima di avvertire che dovremo abituarci a vedere “alti livelli di debito pubblico” diventare un dato permanente dell’orizzonte futuro, l’ex governatore della BCE precisa, quasi en passand, che “la perdita di reddito subita dal settore privato, e il debito raccolto per colmare la differenza, devono alla fine essere assorbiti, in tutto o in parte, dai bilanci degli Stati”. Poco oltre spiegherà che le banche, in quanto in grado di “raggiungere ogni angolo del sistema economico” e “di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito”, sono lo strumento ideale per distribuire in tempo reale le risorse là dove “servono” per mantenere la sostenibilità e la dinamicità del sistema, meritandosi così la necessaria copertura dei propri eventuali disavanzi con risorse pubbliche. Dunque: “Banca” (privata) – “Impresa” (privata) – Mercato del lavoro e delle merci (privati entrambi): questo sembra, nel “New Deal draghiano”, il circuito privilegiato, anzi esclusivo, della regolazione sociale. Al “pubblico” – cioè allo Stato – il compito di prestatore di ultima istanza, di finanziatore finale di un dispositivo che rimane monopolisticamente privato. E che campeggia come unico mediatore con la Società.
Nulla lascia intendere che ci sia una minima possibilità per l’apertura di canali di erogazione diretta di risorse dalle finanze pubbliche al sociale. O per l’ipotesi – sia pur estrema – di una qualche riappropriazione di risorse finanziarie, organizzative, operative da parte del settore pubblico in forma di nazionalizzazione o di partecipazione societaria (tipo Iri delle origini, o National Recovery Act roosweltiano). Il Capitale rimane integralmente privato e mantiene il monopolio della distribuzione di risorse collettive. Il “paradigma liberista” è intatto, anche oggi pur nel passaggio d’epoca. Cambiare è impossibile.
A rivelarlo è la storia. Il 2 giugno del 1992, a pochi giorni dal massacro del giudice Giovanni Falcone – che aveva scovato la via finanziaria che portava la mafia nelle braccia della politica, degli affari, delle decisioni erga omnes degli Stati Uniti d’America – sul panfilo Britannia, davanti alla Regina Elisabetta e a 100 delegati della City londinese, Mario Draghi pronunciò le seguenti parole: “Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, Ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco. Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare.”
Appare qui evidente che nella mente di Mario Draghi, il più alto esponente del neoliberismo imperante, manca ogni riferimento alla Costituzione della Repubblica italiana e, soprattutto, latitano due soggetti giuridici che essa tutela: il singolo e la collettività, considerando gli interessi di tutti, cioè del popolo, prevalenti rispetto a quelli dei singoli. Prova ne sia che Draghi considera fattori negativi i sussidi alle famiglie alle imprese. Dal 1992 a oggi, dopo 29 anni di privatizzazioni, l’Italia non ha mai conosciuto una perdita economica così ampia e un così netto aumento della disoccupazione, essendo passate allo straniero le sue principali fonti di produzione di ricchezza: le industrie strategiche, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le situazioni di monopolio, di cui all’articolo 43 della Costituzione. L’Italia è divenuta un luogo dove gli stranieri fanno shopping di esperienza e tecnologia e, nello stesso tempo, acquisiscono profitti, lasciando agli italiani pochissime possibilità di lavoro, licenziamenti in massa, debiti, strutture fatiscenti, miseria.
Ma la storia ci dice anche che la sovrastruttura — si potrebbe dire così — ha soverchiato la struttura. E impedisce ai popoli di comprendere come è fatta la nuova struttura, la cui principale produzione è immateriale, ma potente: si chiama “inganno”. È per questo che i padroni universali hanno bisogno di ridurre il nostro “tasso di comprensione”. E la questione concerne non soltanto le grandi masse che devono restare ignare: concerne anche loro stessi, che devono circondarsi di scienziati stupidi (specializzati a tal punto da non saper guardare oltre il centimetro quadrato del loro sapere, cioè da non poter vedere la complessità della crisi) e di professori ignoranti e dogmatici (che imparano e insegnano le regole della mappa del denaro e si fermano inorriditi di fronte ai contorni del disegno).
La Trilaterale, quando Draghi parlava sul Britannia, aveva già lanciato il segnale cruciale a tutti i “Padroni Universali”. Segnale che le classi subalterne non potevano – e non possono – né leggere né, leggendolo, capire, perché erano “altrove”, in un luogo della lotta delle classi che non esisteva più. Il messaggio della Trilaterale era questo: non è più il momento di cercare il “consenso”, d’indossare i guanti di velluto. Stava per finire l’epoca delle blandizie, dei consumi, della cultura liberatrice, della democrazia. Non ce ne sarà “per tutti”. Ragion per cui occorreva disarmare le masse prima che diventassero pericolose, avendo percepito l’inganno e il destino che a esse è riservato. Esistevano già gli strumenti tecnologici per esercitare il nuovo “controllo”. La classe intellettuale mediatrice di questo controllo era ed è quella dei gestori del messaggio prefabbricato. È una classe stupida, non creativa, ripetitrice. Ma così dev’essere, altrimenti diventa anch’essa pericolosa.
Non è d’altra parte la prima volta che il nome di Mario Draghi esce da un cilindro come possibile deus ex machina in una complicata congiuntura politica. Nel gennaio del 2008, quando si fecero forti gli scricchiolii del governo Prodi, incominciò a girare insistentemente la voce di una possibile candidatura dell’allora governatore della Banca d’Italia alla guida dell’esecutivo. Gli amanti del pettegolezzo politico ricordano, di allora, una fantasmagorica telefonata dell’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga in diretta alla trasmissione di Luca Giurato, dal contenuto inequivocabile: “Un vile. Un vile affarista – disse, da “picconatore” impenitente. Non si può nominare presidente del Consiglio dei ministri chi è stato socio della Goldman&Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male – aggiunse – io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi. È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro.”
Oggi, esaurito il ruolo del M5S di raccoglitore della rabbia e della frustrazione delle masse, Sergio Mattarella, attuale presidente della Repubblica italiana, e fratello di Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia, presenta Mario Draghi, vestito con la “personalità di alto profilo”, consapevole – non solo perché gliel’ha spiegato il suo predecessore Cossiga – che l’ex governatore della BCE è membro del gruppo Bilderberg, della Commissione Trilaterale, del G30, dell’Aspen Institute, è fedele amico dei Rockfeller e dei Rotschild, parla per nome e per conto della Goldman Sachs, della City of London, di Wall Stret e di tutta quella banda di servi dello straniero e di traditori che hanno svenduto l’Italia portandosi via parti fondamentali del patrimonio pubblico italiano, ossia dello Stato.
Draghi è il nuovo imperatore e con l’imperatore ogni trattativa è impensabile. Il presidente del Consiglio italiano in pectore è perfettamente consapevole che il Senato virtuale del piano di sopra è composto di persone diverse volte più potenti in termini finanziari di quasi tutti i maggiori Stati occidentali. Sa che la sovranità degli Stati non esiste più, mentre alla Costituzione, frutto del sangue dei nostri padri e dei nostri nonni, è stato ufficiato un umile De Profundis. Questa è la fondazione di una nuova forma di governo e di Stato, sovranazionale, non più democratica; è un governo oligarchico, dei Padroni universali, che gestisce il potere in tempi non più di abbondanza e ha la necessità di produrre un cambio di sistema basato sul razionamento drastico delle risorse, da condurre in forme autoritarie sempre più dure. La svolta “nazista bianca”, come nel 2012 l’aveva definita l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è oggi in corso e non è il frutto di un’improvvisazione o di una qualche casualità dovuta al caos di una transizione non programmabile. La politica non esiste più ma il grande reset è già qui, a casa nostra. I Padroni universali, loro stessi, hanno deciso di rompere la gabbia, perchè, fatti i conti, hanno capito che essa non vale più niente. E hanno deciso di sostituirla con una gabbia nuova dopo avere svaligiato tutte le casseforti. Nessuno può negare che c’è del genio in questa follia.
Ma ora dobbiamo pensare al rigurgito sociale che andrebbe guidato mettendo all’angolo il rigor mortis. Non resta che a noi cercare la via per uscirne.
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