di Jeff Hoffman
Il Tribunale di Campobasso ha riconosciuto a una persona di sesso maschile lo status giuridico di donna senza che questi si sia sottoposto a un’operazione chirurgica.
La sentenza, depositata martedì 3 ottobre dalla sezione civile del capoluogo molisano, afferma quindi che il trattamento ormonale o chirurgico non è più obbligatorio per l’ottenimento di un cambio di genere all’anagrafe.
Al di là dell’amletico dubbio sull’essere o non essere, tuttavia, già un’altra sentenza del tribunale di Trapani aveva permesso a un uomo di 53 anni di Erice di cambiare nome e genere sui documenti anagrafici, aprendo così all’identità desiderata e alla fine del paradigma del maschio e della femmina.
Forti le critiche del movimento Pro Vita secondo cui queste sentenze andrebbero contro la legge legittimando l’auto identificazione di genere, mentre la stampa dominante parla di autodeterminazione dell’individuo che, evidentemente, vale per il cambio di genere ma non per la libertà di scelta su altri campi sanitari.
Una nota della Corte Costituzionale del 2017 spiega effettivamente che “la prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non obbligatorio per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”.
Salta agli occhi che le due sentenze sono coerenti con gli obiettivi dell’Agenda 2030 sui cosiddetti diritti di genere e con le nuove disposizioni sui contratti collettivi nazionali degli insegnanti di scuola che, per legge, potranno avere i bagni neutri e un’identità alias sui turni orari e sul cartellino di riconoscimento.
Diritto romano o dirittismo individualistico ossessivo? Ai posteri, se ve ne saranno, l’ardua sentenza.