Europa arma puntata contro l’Iran
di Margherita Furlan
L’Albania ospita non solo basi NATO ma anche “ribelli moderati” anti Iran. Che ci fanno in Albania? Qualcuno è andato a chiederlo a diversi politici albanesi e si è sentito rispondere, senza alcun imbarazzo, qualcosa del tipo: “L’America ci ha dato il Kosovo, ora dobbiamo dare qualcosa in cambio”.
Ma andiamo per ordine. Il 7 settembre 2022 l’Albania ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran. Ad annunciarlo è stato il primo ministro albanese, Edi Rama, con un video pubblicato sui social in cui ha accusato la Repubblica islamica di essere responsabile del cyber attacco ai siti web governativi di Tirana avvenuto il 15 luglio dello stesso anno. La decisione ha rappresentato il culmine di anni di relazioni travagliate tra i due Paesi, dovute alla presenza in territorio albanese di membri dell’Organizzazione dei mujaheddin del popolo dell’Iran (MEK). Nel dicembre 2018 il governo albanese aveva infatti espulso due diplomatici iraniani, l’Ambasciatore Gholamhossein Mohammadnia e Mohammed Roodaki, funzionario presso l’Ambasciata a Tirana, accusati entrambi di essere membri sotto copertura dell’intelligence iraniana. Secondo quanto ebbe a riferire il quotidiano The Independent, i due sarebbero stati parte di una cellula il cui compito era di organizzare “un complotto per colpire l’opposizione iraniana rifugiatasi in Albania”. La mossa sarebbe stata messa in atto in seguito a colloqui con Paesi “interessati”, tra cui Israele e Stati Uniti. Non a caso l’amministrazione di Washington immediatamente si congratulò con Tirana.
La notizia diffusa allora dal The Independent ha però sollevato l’attenzione su uno scenario fino a quel momento poco studiato e rimasto fuori dal raggio dell’attenzione internazionale. Scenario in cui gli Stati Uniti hanno affidato all’Albania un ruolo centrale, e il cui fine (uno dei fini) appare quello di incrementare la destabilizzazione dell’intera area balcanica.
Le relazioni tra Albania e Iran iniziarono a deteriorarsi nel 2013, quando Tirana decise, su richiesta di USA e ONU, di accogliere gradualmente il MEK. Nato nel 1963 come movimento rivoluzionario studentesco d’ispirazione marxista e sciita che si opponeva all’allora Shah, Reza Pahlavi, nel 1979 il MEK partecipò alla rivoluzione guidata da Khomeini. L’ideologia che lo caratterizzava all’epoca era un singolare incrocio di marxismo, femminismo e islamismo. Come tale del tutto incompatibile con quella degli ayatollah sciiti. Il MEK fu così costretto a disperdersi, mentre il suo quartier generale si trasferì a Parigi nel 1981. In questo lasso di tempo il MEK “cambiò pelle”, oltre che ideologi e finanziatori e, cinque anni dopo, riapparì in Irak, precisamente a Camp Ashraf, a nord di Baghdad. Si distinse come formazione armata autonoma — alcune migliaia di combattenti bene addestrati, con le famiglie al seguito — che supportò Saddam Hussein contro l’Iran e apparve attivamente in numerosi episodi di repressione dei curdi irakeni. Il MEK sopravvisse stranamente alla caduta di Saddam Hussein e, nel 2003 venne trasferito, dagli americani vincitori, letteralmente con “armi e bagagli”, in un altro grande accampamento militare il cui nome, non a caso, era Camp Liberty. Da quell’avamposto si diramarono numerosi attentati terroristici e azioni di diversione e boicottaggio contro l’Iran. Formalmente “disarmato” dall’esercito statunitense, inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, il MEK continuò a svolgere un’intensa azione bellica e propagandistica contro Teheran. Sempre sotto la guida del Quartier Generale di Parigi e sempre lasciato libero di agire dai servizi segreti americani, israeliani, francesi. L’ambiguità della sua collocazione non gli impedì però — anzi lo aiutò — di incassare il supporto più o meno esplicito di esponenti politici occidentali.
Il MEK fu inserito dagli USA nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere fin dal 1997 per “uso occasionale di violenza terrorista”. All’inizio degli anni ’70, i membri del MEK avrebbero ucciso diversi soldati e civili statunitensi che lavoravano a progetti di difesa a Teheran. Nel 1972 il MEK avrebbe anche tentato di assassinare l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. Nello stesso periodo, gli agenti del MEK sarebbero stati responsabili di attentati contro strutture della Pan-Am Airlines, della Pan-American Oil e della Shell Oil. Secondo una ricerca condotta da Ivan Kesić – scrittore freelance per The Iranian – riportata da Global Research1, il MEK sarebbe un’organizzazione terroristica che avrebbe condotto attacchi anche contro numerosi altri obiettivi occidentali, anche in Europa.
Nel 2012, al culmine di una campagna di lobbying bipartisan, aggressiva e ben finanziata, l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, sdoganò il MEK, rimuovendolo dalla black list, nonostante l’organizzazione fosse considerata terrorista non solo da Iran e Irak, ma anche da Unione europea, Gran Bretagna e Canada. Non poche furono le voci che si levarono contro tale decisione. Trita Parsi, presidente del National Iranian American Council (NIAC), affermò: “A differenza di altri gruppi dell’opposizione iraniana, il MEK può organizzare operazioni militari. I suoi membri sono esperti in sabotaggi, omicidi e terrorismo. Queste non sono qualità che si prestano a qualsiasi progetto di “democratizzazione”, ma sono estremamente utili quando l’obiettivo strategico è provocare un cambio di regime, attraverso l’invasione o la destabilizzazione politica.” Già nel 1994, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aveva sottolineato2 come il MEK non avrebbe potuto candidarsi alla guida alla Repubblica Islamica. Nel documento si legge: “Evitata dalla maggior parte degli iraniani e fondamentalmente antidemocratica, l’organizzazione dei Mojahedin-e Khalq non è un’alternativa praticabile all’attuale governo iraniano”. Ancora prima, nel 1992, l’allora Segretario di Stato aggiunto, Robert Pelletreau, aveva sottolineato3: “Il MEK non rappresenta una forza politica significativa tra gli iraniani, in parte a causa dei suoi stretti legami con il governo irakeno”. Michael Rubin, consulente per il Medio Oriente del Pentagono dal 2002 al 2004, aveva precisato in The National Interest che “gran parte della popolazione iraniana, a prescindere dalla sua visione politica, condivide un profondo odio per il MEK”. Aggiunse John Limbert, ex vice Segretario di Stato per l’Iran, che la maggioranza del popolo iraniano “non si fa ingannare dalle pretese democratiche del MEK perché conosce la sua storia omicida”. Secondo un sondaggio commissionato nel 2018 dalla Public Affairs Alliance of Iranian Americans solo il 6% degli iraniani residenti negli Stati Uniti sosteneva il MEK come un’alternativa legittima al governo in Iran. Il dato rispecchiava l’analisi dell’anno precedente, che riferiva di un debole 7% in merito alle simpatie per Maryam Rajavi, leader del MEK.
Ma oramai tutto era pronto. L’accordo per il ricollocamento di circa 3.500 mujaheddin in Albania iniziò di fatto nel 2013 per terminare nel 2016. Il MEK fu trasferito. Di nuovo con “armi e bagagli”. Impresa molto costosa, che ha certamente richiesto un consistente ponte aereo e grandi spese d’nsediamento per migliaia di persone. Organizzatori di un tale esodo sono stati, senza alcun dubbio, i servizi segreti americani. Ma perché proprio in Albania? E con quali compiti?
Interessante l’intervista recentemente rilasciata al Balkans Post da Olsi Jazexhi, storico canadese-albanese specializzato nella storia dell’Islam nell’Europa sud orientale: “L’America sta trasformando l’Albania in un rifugio sicuro per il jihadismo internazionale”.
I mujaheddin del popolo sono una presenza senza precedenti in Albania, che pure ha ospitato non pochi combattenti islamici prima e durante la guerra contro la ex Jugoslavia. Quando gli USA portarono il primo gruppo di jihadisti iraniani in Albania, il governo iraniano protestò pubblicamente e vigorosamente. All’epoca, l’ex primo ministro albanese Sali Berisha assicurò agli iraniani che il MEK sarebbe stato ospitato solo per ragioni umanitarie e nessuna azione contro l’Iran sarebbe stata permessa dal governo di Tirana. “Tuttavia, il tempo ha dimostrato — spiega Jazexhi — che i mujaheddin iraniani vennero in Albania non solo per chiedere asilo, ma con l’intenzione di trasformare l’Albania in un secondo Afghanistan, nel cuore dell’Europa”. Il meccanismo sarebbe in sostanza, lo stesso con cui, negli anni ’80, i mujaheddin afghani furono sostenuti e finanziati dagli americani per combattere l’URSS.
E non si tratta di indiscrezioni. Nel 2016 Voice of America annunciò che l’Albania avrebbe accettato duemila mujaheddin in cambio di 20 milioni di dollari. Nel campo di Manza – vera e propria cittadina costruita da società israeliane – sarebbero oggi “ospitati” circa 4.400 membri del MEK, che vivono in quasi completo isolamento, impossibilitati a uscire, anche ad avere contatti con le loro famiglie, evidentemente accampate nelle vicinanze. Qualcosa di simile a una setta, con rigide norme morali e religiose da rispettare. Cosa succeda da quelle parti non è facilmente verificabile data la strettissima sorveglianza che circonda il campo. Ad Ashraf-3 – così si chiama il nuovo Quartier Generale della Resistenza iraniana in Albania – sarebbero dislocati anche gruppi di combattenti dell’ISIS in fuga dalla Siria, colà direttamente trasportati da aerei della US Airforce. Sarà un caso, ma proprio in Albania la leader del MEK, Maryam Rajavi, il 23 giugno 2014, davanti a seicento personalità occidentali, si rallegrò della riconquista dell’Irak da parte di Daesh. Un recente documentario di Al-Jazeera ha rivelato inoltre l’esistenza di un vasto gruppo di militanti istruito nelle tecniche della diversione informatico-comunicativa: qualcosa che potrebbe essere definita come “cyber-jihad”, ovvero notizie false e attacchi informatici, rivolti contro l’Iran, ma destinati in particolare modo a influenzare i media europei in vista di una rottura dei rapporti con Teheran e a far crescere il timore verso la Repubblica islamica nel pubblico europeo.
Nel New York Times4, nel 2012, apparve un elenco di sostenitori del MEK, tra cui diversi esponenti del Congresso americano, ma anche R. James Woolsey e Porter J. Goss, ex direttori della CIA, Louis J. Freeh, ex direttore dell’FBI, Tom Ridge, ex Consigliere per la Sicurezza nazionale degli USA sotto l’amministrazione George W. Bush, l’ex Sindaco di New York, Rudolph Giuliani, John Bolton, ex Consigliere per la Sicurezza nazionale con Donald Trump, l’ex Procuratore Generale Michael B. Mukasey e l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale ai tempi di Obama, il generale James L. Jones.
Diverse le prese di posizione nel mondo in favore del MEK anche da parte di esponenti del panorama politico italiano, come Emma Bonino. Una delegazione ufficiale dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” ha visitato il quartier generale albanese dei mujaheddin, a sostegno della lotta per i diritti umani contro il governo iraniano. Si è distinto in questa direzione l’ex ministro degli esteri del governo Monti, Giulio Terzi, che ha annunciato “appoggio incondizionato” al MEK, definendo i suoi militanti come “combattenti per la libertà” e assicurando questi ultimi che “un’ampia parte della società italiana è convinta che stare dalla vostra parte significa stare dalla parte giusta della storia”. Chiare le parole pronunciate da Giulio Terzi: “I mullah se ne devono andare, gli ayatollah se ne devono andare e devono essere rimpiazzati da un governo democratico sotto la guida della signora Rajavi, leader del MEK”. Un disegno da manuale di regime change: rovesciamento di un governo e susseguente “esportazione di democrazia”. Film già visto in abbondanza.
Intanto però, mentre il confine tra l’Albania e il Kosovo sta scomparendo ed Edi Rama, in nome degli standard europei – quindi con il plauso della NATO – lavora perché lo “sportello unico” venga adottato anche al confine con la Macedonia del Nord, il Montenegro e la Grecia. La Serbia evidentementedev’essere isolata ed esclusa a causa della sua vicinanza alla Federazione Russa, mentre la Grande Albania si appresta a diventare un’arma puntata su ciò che resterà dell’Europa.
La grande operazione israelo-americana di destabilizzazione del Medio Oriente attraverso l’uso di forze jihadiste, iniziata molti decenni fa, sembra dunque proseguire ancora anche in questa veste. E questa volta guarda diritto all’Iran. Con la silenziosa complicità dell’Europa, incapace di una politica autonoma, una non troppo oscura alleanza tra pezzi delle amministrazioni statunitensi e uomini dei deep states sta ora preparandosi per un altro crogiolo di puntute provocazioni. A noi non resta che aspettare la prossima puntata. Fino all’armageddon finale.
1 https://www.globalresearch.ca/trump-consiglieres-giuliani-bolton-paid-big-bucks-mek-terrorist-group/5683486
4 https://www.nytimes.com/2012/09/22/world/middleeast/iranian-opposition-group-mek-wins-removal-from-us-terrorist-list.html