di Gionata Chatillard
Uomo, bianco e di età compresa fra i 25 e i 64 anni. Questo è a grosse spanne l’identikit di chi sceglie di togliersi la vita negli Stati Uniti. Un fenomeno sempre più in aumento e che continua a battere record. Nel 2022, infatti, i suicidi sono stati quasi 50.000 in tutto il paese, un incremento di oltre il 2,5% rispetto all’anno precedente, e mai così tanti da quando si è iniziato a tenere il conto, nell’ormai lontano 1941.
Il computo totale, che secondo le autorità è probabilmente una stima al ribasso di quelli che sarebbero i numeri definitivi, racconta che le persone di sesso maschile che si sono tolte la vita sono state quasi il quadruplo rispetto a quelle di sesso femminile. Un dato che sembra cozzare con i presunti privilegi di cui godrebbero gli uomini nella “società patriarcale” continuamente denunciata dai media occidentali. Privilegi che non impediscono ai maschi di essere i più vulnerabili alle droghe e alle armi da fuoco. Il tutto, dicono gli esperti, in un contesto di crescente isolamento sociale dovuto in buona parte a una pervasività tecnologica nutrita all’occorrenza dalle restrizioni pandemiche di turno.
Più in generale, l’aumento di persone che decidono di togliersi la vita nella patria del sogno americano induce a pensare che il modello di sviluppo economico proposto -o imposto- dall’Occidente non vada di pari passo all’aumento della felicità di chi di quel modello finisce per essere prigioniero. Se è vero che, secondo i dati dell’OMS, gli Stati Uniti sono lontani dal guidare la classifica dei paesi con il maggior tasso di suicidi -dove svetta invece la Groenlandia- è anche vero che nelle primissime posizioni ci sono nazioni come il Giappone e la Corea del Sud, che più di altre hanno dovuto rinunciare alle proprie radici per convertirsi in un brevissimo arco di tempo alla religione del consumismo.