di Margherita Furlan
Secondo Sergey Glazyev, ex consigliere economico di Vladimir Putin, la crisi finanziaria del dollaro sta entrando in una nuova fase, caratterizzata da una combinazione di inflazione galoppante da un lato e da una valanga di fallimenti bancari e di bolle finanziarie in esplosione dall’altro. D’altronde, con la fuga di tutti gli investitori ragionevoli dal dollaro, non disposti a vedersi confiscare i propri beni, dopo l’Iran, il Venezuela e la Russia, il margine di manovra della Fed si è ristretto al mercato finanziario statunitense e ai suoi satelliti. Questi ultimi hanno però ancora più problemi: le banche giapponesi operano da tempo con capitale negativo e sono a galla solo grazie al rifinanziamento illimitato della Banca Centrale; le maggiori banche europee si trovano in una posizione analoga e sopravvivono principalmente acquistando asset in difficoltà dalla BCE. Di fatto, le obbligazioni del Tesoro statunitense vengono acquistate principalmente dagli operatori dello stesso mercato finanziario statunitense, che potrebbero essere travolti dal fallimento in qualsiasi momento. Non esiste dunque una via d’uscita accettabile dalla trappola in cui è caduto il sistema finanziario statunitense. Si stamperanno altri trilioni di dollari per salvare le “proprie” banche e appropriarsi degli attivi delle banche in fallimento, mentre milioni di cittadini perderanno i loro risparmi, come già successo nel 2008, ma ora, dopo il 2020, l’innesco di questo meccanismo si sovrapporrà all’avvicinarsi della crisi politica, che potrebbe provocare una rivolta sociale della popolazione insoddisfatta dalla rapina della società. “E’ tutta colpa dei russi” è dunque la soluzione più facile per spiegare l’inflazione galoppante e il crescente deficit di bilancio. La guerra contro la Russia, presto visibile anche contro la Cina, è dunque in primis alimentata dalla paura dell’élite statunitense di un’imminente catastrofe finanziaria ed economica. Per questo motivo Washington sta intensificando il conflitto militare e guarda alla Cina come prossima pedina pronta a entrare in gioco, Sono lontani i tempi del Trattato Antartico, che nel 1959 stabilì le linee guida per l’utilizzo pacifico delle risorse del continente e per la preservazione di flora, fauna e dell’ecosistema: tramite il Trattato, i paesi firmatari con rivendicazioni di sovranità territoriale concordarono di interrompere le loro richieste e di rinunciare allo sfruttamento economico o all’utilizzo per scopi bellici del continente; in Antartide sono infatti vietate attività di tipo militare, esplosioni nucleari e depositi di materiale radioattivo. Ma in Antartide il Sole è sempre alto a mezzogiorno, da noi nell’obsoleto Occidente invece è venuta l’ora di abbandonare il sogno profetico di dominare l’universo per aspirare alla conviviali sulla Terra, promuovendo una casa comune della vita e dell’umanità, anche riazzerando i debiti, e prima che l’ex Celeste Impero sostituisca l’agonizzante Consensus Washingtoniano, in modo di legare in maniera concentrica le nostre patrie e integrarle nell’universo concreto della patria terrestre, o per meglio dire dell’intelligibilità universale.