di Domenico D’Amico
Che la Germania sia un protettorato americano è un segreto di pulcinella.
Ai tedeschi gli americani hanno assegnato un compito tutto sommato onorevole, vista la catastrofica sconfitta subita, con successiva resa incondizionata: ossia guidare l’economia europea.
Per qualche tempo, sul finire della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti considerarono l’idea di trasformare la Germania in un grande pascolo per pecore, o in qualcosa di simile: era il piano Morgenthau, voluta in prevalenza dalla lobby ebraica in Usa. Poi considerazioni strategiche e geopolitiche consigliarono un’altra strada e, anche grazie alla forte influenza della stirpe sassone negli Usa, a Washington pensarono bene di lasciare crescere i tedeschi come ben sapevano fare: lasciando rinascere la loro industria.
In questi lunghi ottant’anni non hanno mai tradito, aderendo perfettamente o quasi a ogni diktat di Washington.
Con la caduta del muro rinasceva nel 1990 la grande Germania, colosso economico e demografico al centro del continente.
Dopo una crisi iniziale negli anni ’90, con l’avvio dell’euro questo colosso riprese il via, diventando incontrastato padrone della scena economica europea.
Padrone solo economico però e solo in Europa, perché a livello militare e politico la Germania è sempre rimasto un nano a livello mondiale: l’occupazione Usa e della Nato è pervasiva e l’obbedienza a Washington a livello di politica internazionale non deve essere mai in discussione.
E comunque anche la forza economica è sempre condizionata ad alcune obbedienze: si veda la crisi Lehman Brother, quando fu la più grande banca tedesca, la Deutsche Bank (LEGGI DOICH BANK), ad accollarsi la più grossa fetta di crediti deteriorati.
Sotto ordine probabilmente politico, come da tradizione.
O come quando la più grande casa automobilistica tedesca, la Volkswagen, fu messa in gravissima crisi dalla causa intentata negli Usa meglio nota come dieselgate (leggi diselgheit), con cause legali e danni patrimoniali e d’immagine per decine di miliardi di euro.
Nulla sembra però scalfire fiducia, gratitudine e quindi obbedienza teutonica; ci fu un accenno di reazione,con crisi nei rapporti, solo quando si scoprì nel 2014 che tutte le più alte cariche dello stato erano (e probabilmente sono) costantemente spiate dalla Nsa (leggi National Security Agency), il servizio di spionaggio interno Usa, che si scoprì avere venti siti attivi in Germania: grande levata di scudi, qualche provvedimento ufficiale, ma poi tutto è rientrato nella norma. Nessuna reazione invece quando il celeberrimo giornalista Ulfkotte denunciò il totale controllo da parte della CIA del giornalismo tedesco.
E arriviamo ai giorni nostri, con la incredibile storia dei gasdotti Nord Stream 1 e 2: storia di sabotaggio e auto-sabotaggio che sta mettendo in seria crisi la locomotiva tedesca; senza gas russo, che prima arrivava a volontà e a buon prezzo, tutto sembra adesso in crisi.
La bacchettata di ieri a Berlino da parte di Kissinger, che non ha tollerato le esultanze in Germania di alcuni piccoli gruppi islamici pro-Hamas e che definisce “grave errore” la politica di accoglienza della Germania, è l’ennesimo umiliante capitolo di una totale sudditanza, ormai arrivata a livelli di autolesionismo sistemico. Subito la reazione del debole governo tedesco, che con la coda tra le gambe garantisce la messa al bando di Hamas e del gruppo pro-Palestina Samidoun. Il premier Scholz parla di legge sulle associazioni come ‘spada affilata…che verrà usata”. Dopo la Francia, anche la Germania va verso la repressione di chi non aderisce al verbo unico rappresentato, questa volta, dalla bandiera israeliana proiettata sulla porta di Brandeburgo.