di Gionata Chatillard
Manca ormai meno di un anno alla scadenza del memorandum d’intesa fra Roma e Pechino firmato nel 2019 dal primo Governo Conte. Da qui a marzo del prossimo anno l’Esecutivo guidato da Giorgia Meloni dovrà quindi decidere se rinnovare o meno un accordo che contribuirebbe a fare dell’Italia uno dei pilastri della Nuova Via della Seta cinese.
Sebbene da quell’ormai lontano 2019 di acqua sotto i ponti ne sia passata tanta, ancora a febbraio di quest’anno il presidente Sergio Mattarella aveva tenuto a Roma un incontro apparentemente costruttivo con l’alto diplomatico Wang Yi, nominato proprio in questi giorni ministro degli Esteri della Repubblica Popolare e con cui il presidente italiano aveva discusso di come rafforzare il multilateralismo. Atto, questo, non proprio scontato per l’unico paese del G7 ad essere salito sul carro della Via della Seta.
Negli ultimi mesi, però, non sono mancati i segnali indicanti che l’eccezionalità italiana in materia cinese sia in procinto di finire. La senatrice Stefania Craxi, presidente della Commissione Affari Esteri e Difesa, ha infatti dichiarato che firmare l’intesa con Pechino è stato un errore. E la stessa Meloni ha iniziato a mettere le mani avanti sostenendo che con Pechino si possono avere buone relazioni anche senza un “piano strategico complessivo”.
In questo contesto, la premier italiana si è recata oggi a Washington su invito di Joe Biden proprio per parlare di Cina. Meloni, alla sua prima visita ufficiale alla Casa Bianca, ha assicurato che con il presidente americano non entrerà nello specifico della Via della Seta. Tuttavia, le parole della presidente del Consiglio non hanno rassicurato Pechino, che vede questa trasferta americana come un atto di subalternità nei confronti del potente alleato statunitense.
Per il Governo cinese, non è infatti accettabile che Washington intervenga in quella che -almeno in teoria- dovrebbe essere una questione bilaterale. Stesso ragionamento che probabilmente stanno facendo i milioni di elettori di Fratelli d’Italia che poco meno di un anno fa avevano votato per un partito che era nato e cresciuto facendo del sovranismo una bandiera.