“Nella negazione di questa consapevolezza, si annida il problema dell’oggi”: il bellissimo testo degli Studenti di Venezia
Ottobre 3, 2021
Premessa
a cura del Prof. Domenico Fiormonte
Nel mondo capovolto nel quale stiamo vivendo da un anno e mezzo, dove la normalità è abnormità, la discriminazione è protezione e l’universitas disuniversitas, le parole di Maria Desideria, Patricia e Riccardo, tre studenti dell’Università di Venezia, risuonano come profezie che vengono dal futuro. Come ricercatore e docente, sono abituato, da tre decenni ormai, ad ascoltare le litanie dei miei colleghi che si lamentano dello “scadere della qualità degli studenti”, del loro basso livello di preparazione, degli immani sforzi necessari per recuperare una massa di analfabeti di ritorno e naturalmente delle colpe delle scuole, dei genitori, del governo, ecc. Le colpe di tutti, meno che le loro: le nostre. Leggendo queste parole ho provato un profondo disagio e soprattutto una profonda vergogna. Le voci di questi ragazzi sono rasoi di Occam che squarciano le gole:
“Si dichiari l’emergenza finita, perché questa sta provocando fratture e drammi economici, sociali, etici e politici gravissimi nel paese. Si dichiari l’emergenza finita perché in altri paesi del mondo le restrizioni non sono in vigore. (…) Si dichiari cessato il tempo nel quale invece che potenziare la sanità pubblica se ne infliggono continuamente tagli, mentre si cercano fantomatici nemici della scienza a cui additare la colpa di ogni eventuale problema. Si cessi di proseguire l’attentato alla Costituzione nell’omertà generale e ci si stringa intorno ad essa. Nessun lasciapassare verde fascista, né ora, né mai, grazie.”
I ventenni del ’68, del ’77, del ’90 e anche del 2010 lottavano per un’università diversa, più equa e più inclusiva. I ventenni di oggi, l’abbandonano:
“Non posso, dunque, provare rabbia o tristezza per averla abbandonata; provo semmai una certa nostalgia per i tempi in cui tutto questo non era ancora chiaro, e nella società avevo fiducia.”
Il green pass, ovvero la nostra apatia e complicità di fronte a questo scempio è probabilmente la pietra tombale su questauniversità. Ma se noi “vecchi” abbiamo perso – li abbiamo persi – queste parole dimostrano che loro hanno già vinto.
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“Sacer esto” (sii maledetto): questo l’anatema che veniva scagliato dai romani a chi era reo di aver infranto la loro beneamata pax deorum.
Come sempre sono i classici a insegnarci come possa la teoresi trovare riscontro nella prassi. Colui che portava con sé la sacertà diveniva a tutti gli effetti un reietto, qualcuno a cui era concesso di espletare le proprie funzioni vitali, di condurre la propria esistenza, ma non di partecipare a quel tessuto sociale che era considerato il compimento dell’uomo nella sua componente superiore, nella sua anima razionale. L’homo sacer non era più animale politico, ma solo animale, che si poteva pertanto uccidere impunemente.
È chiaro, dunque, che i romani possedevano la consapevolezza di essere anche altro al di là delle proprie funzioni biologiche, della propria grama esistenza.
Potrebbe sembrare scontato, a leggerlo su un foglio o a pronunciarlo qui in questa piazza, ma scontato non è: è proprio nella negazione di questa consapevolezza, infatti, che si annida il problema di fondo dell’odierno stato di cose. Oggi non sappiamo accettare l’idea della morte, perché ci siamo impegnati fin troppo a contrastarla. Siamo noi, i singoli individui, a essere additati come la causa della morte di un ammalato, come se non si trattasse di una fatalità naturale che preesiste e prescinde da noi. Siamo talmente attaccati all’esistenza, da essere pronti a barattarla per la vita, per la nostra dignità di individui. Tutto si può sopportare, ma non l’idea della morte.
Su questo terreno – è il caso di dire – infertile si è sviluppato, negli ultimi due anni, un sentimento diffuso di terrore, che porta i più a sacrificare senza colpo ferire la dignità dei propri simili, dei propri concittadini.
Il concetto di autodeterminazione, che si fonda su quello della dignità ed è così ripetuto negli ultimi anni e negli ultimi giorni per battaglie come l’aborto e l’eutanasia, viene volontariamente ignorato, in nome della paura.
Ci siamo ridotti, in questo modo, a quella che Agamben giustamente chiama la “nuda vita”: “una vita né sana né malata, che, come tale, in quanto potenzialmente patogena, può essere privata delle sue libertà e assoggettata a divieti e controlli di ogni specie.” Ognuno di noi, allora, è chiamato a scegliere quale strada percorrere al bivio: la nuda vita, o la giustizia, che è di per se stessa bene comune.
I più, come è evidente, preferiscono la nuda vita, e solo pochi hanno l’integrità necessaria a sobbarcarsi l’immensa fatica che è divenuto esercitare la giustizia. Nell’imboccare quest’ultima, accidentata strada, il mio stato d’animo di studentessa è mutato, evolvendosi.
Se in una prima fase la prospettiva di abbandonare la quotidianità cui ero abituata, il terreno su cui poggiavano i miei progetti per il futuro, mi rattristava, ora non è più così. Mi rendo conto che la società che abbandono – intendo dire l’università – è una società in cui non vale la pena di restare, perché popolata soltanto di “nude vite”, di uomini che hanno barattato la parte migliore di sé per la parte peggiore. È una società sterile, che pur pavoneggiandosi dei suoi titoli accademici, non ha più alcunché di vitale da offrire.
Non posso, dunque, provare rabbia o tristezza per averla abbandonata; provo semmai una certa nostalgia per i tempi in cui tutto questo non era ancora chiaro, e nella società avevo fiducia. La mia rabbia monta per una ragione diversa: mi derubano le materie prime del sapere. Biblioteche, musei, concerti – dove non ci sono intermediari tra il valore intrinseco dell’oggetto e il suo spettatore – sono aperti soltanto a coloro che hanno scelto di sottostare alle nuove norme spersonalizzanti, a chi ha scelto la nuda vita. A chi ha scelto l’altra via, quella della giustizia, non resta nulla.
È questa, per quanto mi riguarda, la manifestazione più cattiva della certificazione verde, il sottrarre questi beni vitali a chi se ne nutre, per assicurarli soltanto a chi, in fondo, non ne ha alcun bisogno.
Scriveva Puškin:
Solitario seminatore di libertà,
Sono uscito presto, prima della stella;
Con mano pura e innocente
Nei solchi divenuti servi
Ho gettato un seme vivificatore –
Ma ho solo perduto il mio tempo,
I buoni pensieri e la fatica…
Pascolate, pacifici popoli!
Non vi risveglierà il grido dell’onore.
A che servono alle mandrie i doni della libertà?
Bisogna solo accoltellarle o tosarle.
La loro eredità di stirpe in stirpe
È il giogo con i sonagli e la frusta.
Firmato: Maria Desideria
Cliccate Qui per trovare il video del suo intervento alla manifestazione di Studenti contro il Green Pass – Venezia, tenutasi il giorno 25/09/2021 in campo San Pantalon.
Foto: Studenti contro il Green Pass – Venezia
3 ottobre 2021