di Gionata Chatillard
Ci è voluto un intenso lavorio diplomatico per far sì che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite posticipasse per la seconda volta il voto su quanto successo a Srebrenica nel 1995. A spendersi in prima persona per arrivare al rinvio è stato lo stesso presidente serbo, Aleksandar Vucic, che per 5 giorni ha pressato decine di rappresentanti diplomatici occidentali nel Palazzo di Vetro di New York. Uno sforzo grazie al quale è stato possibile annullare la votazione inizialmente prevista per questo giovedì, 2 maggio, ma poi rimandata a data da destinarsi.
A voler a tutti i costi fare i conti col passato sono gli Stati Uniti e i loro alleati, con in prima fila Italia, Francia e Germania. I paesi occidentali spingono affinché venga messo nero su bianco che ciò che accadde a Srebrenica quasi 30 anni fa fu un “genocidio” a opera delle truppe serbo-bosniache contro la popolazione musulmana. Per Belgrado, tuttavia, dietro alla fretta con cui Washington e i suoi seguaci vorrebbero far approvare la risoluzione si nasconde in realtà la volontà di destabilizzare i Balcani per isolare ulteriormente la Serbia. Secondo Vucic, infatti, rispolverare adesso questa questione serve solo a calpestare gli accordi di pace di Dayton, che nel 1995 misero fine alla guerra civile in Bosnia ed Erzegovina.
Riaprire la vecchia ferita, argomenta il presidente, interessa non a chi ha a cuore la stabilità delle regione, ma solo a chi cerca una “punizione collettiva” per il popolo serbo. Motivo per cui Belgrado considera la risoluzione proposta dall’Occidente come un “gesto sconsiderato”. Stessa opinione espressa dal leader dei serbi di Bosnia, Milorad Dodik, che ha già minacciato di separarsi dal resto del paese in caso l’iniziativa venisse approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU. “Non potremo più collaborare con i bosniaci se questi intendono denigrarci a livello globale”, ha spiegato il politico dalla città di San Pietroburgo, dove si era recato per sfruttare una delle poche sponde che rimangono ai serbi nel panorama internazionale.
La Russia è in questo senso di importanza capitale per la stessa sopravvivenza di ciò che resta della Jugoslavia. Con il Kosovo ancora lontano dalla normalizzazione istituzionale, l’offensiva diplomatica occidentale su Srebrenica è per Belgrado un vera e propria minaccia esistenziale, che Vucic dovrà affrontare facendo ancora una volta l’equilibrista e rivolgendosi a quei Governi che, per motivi diversi, si sentono -esattamente come la Serbia- sempre più accerchiati dall’Occidente. E se Mosca è indubbiamente in cima a questa lista, in seconda posizione potrebbe già essersi posizionata Pechino. Non a caso, il presidente cinese Xi Jinping si recherà in visita a Belgrado il prossimo 8 maggio, proprio in concomitanza con l’anniversario delle bombe della NATO che 25 anni fa colpirono l’ambasciata cinese causando tre morti, vittime collaterali di una guerra su cui la Casa Bianca non sembra ancora disposta a scrivere la parola “fine”.