di Gionata Chatillard
Una “dura punizione” per le minacce separatiste di Taipei. Così l’Esercito cinese ha definito le esercitazioni militari con cui ieri Pechino ha accerchiato Taiwan con navi e aerei da guerra. Si tratta delle manovre più aggressive da oltre un anno, che ricalcano quelle messe in atto nell’agosto del 2022 dopo la visita all’isola dell’allora presidente della Camera dei Rappresentanti statunitense Nancy Pelosi. Questa volta, però, a innescare le esercitazioni è stato il nuovo presidente taiwanese, William Lai, che durante il suo discorso di insediamento -definito “vergognoso” da Pechino- ha invitato la Repubblica Popolare a smettere di minacciare Taipei.
Secondo diversi analisti, rispetto alle manovre di quasi 2 anni fa, quelle di questi giorni avrebbero non tanto l’obiettivo di testare un blocco economico dell’isola, quanto piuttosto quello di simulare un attacco militare su vasta scala. Un’escalation che si riflette anche nelle parole del portavoce del Ministero degli Esteri cinese, che ha avvertito le “forze indipendentiste di Taiwan” che finiranno con la “testa rotta” se proveranno a impedire a Pechino di raggiungere la “completa riunificazione” del paese.
L’Esercito della Repubblica Popolare, però, non ha lanciato avvertimenti solo a Taipei, ma anche a Washington, definendo le manovre partite ieri come un “severo avvertimento contro le interferenza di forze esterne” sul dossier taiwanese. Interferenze che, come spesso succede, partono dal terreno economico. Non a caso, la Casa Bianca ha indetto ormai da anni una guerra commerciale con la Cina, a cui Pechino sta rispondendo colpo su colpo. L’ultima iniziativa in questo senso è stata la decisione di sanzionare 12 società statunitensi legate al Dipartimento della Difesa, come Lockheed Martin, Raytheon o General Dynamics. In poche parole, i principali fornitori di armi del Pentagono, i cui beni sono stati congelati da Pechino. Una misura che il Governo cinese ha motivato in 2 modi diversi. Da una parte, si tratta di una ritorsione per i dazi imposti da Washington sui prodotti tecnologici della Repubblica Popolare, in particolare quelli legati in qualche modo alla Russia. Dall’altra, a irritare Pechino sono anche i continui rifornimenti di armi che da Washington arrivano a Taipei.
Ma se la Casa Bianca è preoccupata, non è solo per via di una mera questione territoriale. Washington teme anche che un eventuale invasione di Taiwan da parte dell’Esercito cinese potrebbe mettere a repentaglio la catena di approvvigionamento occidentale dei microchip, che ha proprio in Taiwan la sua principale base operativa. Ciononostante, qualora le forze armate di Pechino dovessero impossessarsi delle fabbriche del colosso dei semiconduttori TSMC, Washington avrebbe già in canna un piano B, che consisterebbe nel disattivare da remoto le macchine che permettono la fabbricazione di questi dispositivi. Ciò sarebbe possibile grazie alla collaborazione dell’azienda olandese ASML, che ha già dato la sua disponibilità per un’operazione del genere, contribuendo in questo modo a un’escalation che da commerciale potrebbe presto diventare bellica.