di Jeff Hoffman
Il prezzo dell’oro è aumentato dell’1,5% stabilendo il nuovo massimo storico di 2.466 dollari per oncia.
I prezzi dei futures di oro e argento alla borsa di New York sono aumentati rispettivamente dello 0,8% e 0,4% a 2.440 dollari e 31 dollari l’oncia.
Così continua, a oriente come a occidente, la corsa all’oro delle banche centrali, con quelle occidentali che, per la prima volta dagli accordi di Bretton Woods, hanno perso buona parte del controllo sull’economia e la finanza globale.
A fare incetta di oro vi sono infatti anche le banche centrali dei paesi BRICS che, come ha ammesso il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, hanno avviato un processo di dedollarizzazione che toglie il sonno ai funzionari di Washington.
La scorsa settimana il presidente della Fed, Jerome Powell, ha nuovamente ribadito che abbassare i tassi di interesse non è consigliabile fino a quando l’inflazione non tornerà verso l’obiettivo del 2%.
Ciò che né Jerome Powell né la Yellen dicono è che l’aumento del prezzo dell’oro dipende in gran parte dai tassi di interesse di Russia e Cina che, a fianco dei loro alleati, non soltanto commerciano con valute nazionali ma pianificano di adottare un’unità di pagamento comune già nota come Unit, sostenuta per il 40% da oro e per il 30% da obbligazioni russe e cinesi, dove sia la moneta russa che quella cinese sono a loro volta sostenuta dall’oro.
La prossima riunione della banca centrale statunitense è prevista per il 30-31 luglio ma, stando alla stampa di settore, per il primo taglio dei tassi di interesse ci sarà da aspettare fino a settembre.
Nel frattempo, dopo che nel 2023 le riserve di oro nelle banche centrali hanno superato quelle di euro, l’oro ha raggiunto il 17,6% di tutte le riserve mondiali, superando i livelli del 1971, anno in cui l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, ruppe il matrimonio fra moneta statunitense e metallo prezioso.