Strage di via d’Amelio, la signora Agnese e l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino
- Giorgio Bongiovanni
Nelle parole della moglie del giudice uno spunto di verità
Una strage di Stato. Può essere certamente definita così la strage di via d’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.
Da trent’anni gli interrogativi attorno al suo compimento sono molteplici: perché quell’attentato avvenne così in fretta, appena 57 giorni dopo l’attentato di Capaci? Quali furono i motivi che portarono all’accelerazione di cui hanno parlato collaboratori di giustizia di primissimo piano come Giovanni Brusca e Totò Cancemi? Cosa aveva scoperto Paolo Borsellino?
Trovare le risposte non è affatto semplice.
Siamo nell’anno del trentennale e dopo la sentenza del Tribunale di Caltanissetta che ha comunque assolto dall’accusa di calunnia il poliziotto Michele Ribaudo “perché il fatto non costituisce reato”, mentre la prescrizione ha “salvato” gli altri due poliziotti, Mario Bo e Fabrizio Mattei, perché è decaduta l’aggravante mafiosa, si è tornati a parlare del depistaggio sulle indagini che certamente vi è stato, ma che va ben oltre la vestizione del “pupo” Vincenzo Scarantino.
Un processo tutto sommato forzato. Mentre i depistaggi, gli inganni, le trattative dello Stato-mafia, con i carnefici di via d’Amelio, sono di altra natura.
L’agenda rossa
Un punto cruciale, nonché primo vero atto di depistaggio, è stato sicuramente il furto dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Un fatto che avvenne già il 19 luglio 1992, pochi attimi dopo l’attentato, e sicuramente non per mano di figure come Salvatore Biondino, Giuseppe Graviano o altri mafiosi.
Mani teleguidate che hanno posto in essere ordini precisi.
La moglie di Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, e l’ex capo ufficio istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto
E’ ormai nota la storia del ritrovamento della fotografia in cui viene ritratto l’allora capitano Giovanni Arcangioli, con in mano la borsa di Borsellino. Una vicenda che ci ha visti coinvolti in prima persona quando, anziché fare lo scoop, decidemmo di riferire all’autorità giudiziaria quanto avevamo appreso da una fonte.
Fu aperta un’inchiesta, Arcangioli fu indagato per il furto dell’agenda rossa e poi assolto per “non aver commesso il fatto”, nonostante successivamente furono rinvenute anche le immagini video mentre si allontana da via d’Amelio con in mano la valigetta del giudice.
La famiglia Borsellino aveva segnalato l’esistenza di quell’agenda ad Arnaldo La Barbera (morto nel 2002, ndr) che aveva guidato il gruppo investigativo all’indomani della strage di via d’Amelio, ma lui si limitò a replicare “che questa agenda era il frutto della nostra farneticazione”. Dagli ultimi sviluppi delle indagini risultò poi che La Barbera, negli anni precedenti alla nomina di Capo della Squadra Mobile a Palermo, era stato per un periodo al soldo dei servizi segreti con il nome in codice “Rutilius”. E proprio La Barbera, nella sentenza del Borsellino quater, viene indicato tra i fautori del depistaggio sulle indagini della strage.
Al di là delle responsabilità eventuali fin qui accertate è chiaro che la sparizione dell’agenda rossa è strettamente legata all’eliminazione fisica di Paolo Borsellino.
Come ha detto in più occasioni l’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato “non bastava uccidere Borsellino, si doveva far sparire l’agenda rossa perché se fosse stata trovata sarebbe finito tutto”.
Mettendo in fila i pezzi della storia è possibile intravedere quali potessero essere i contenuti di quel preziosissimo documento.
In questi anni i processi su via d’Amelio così come quello sulla trattativa Stato-mafia hanno messo in evidenza diversi elementi, a cominciare da quelle stesse parole che Paolo Borsellino disse pubblicamente a casa Professa, affermando di essere un “testimone” e di voler riferire all’autorità giudiziaria ciò che sapeva sulla morte dell’amico fraterno, Giovanni Falcone.
E’ nel lavoro di Paolo Borsellino che passa la ricerca della verità sulle stragi.
Perché il giudice aveva capito e compreso cose importanti.
La strage di Via d’Amelio © Shobha
La ricerca della verità
Sul punto una testimonianza diretta, da cui ripartire nella ricerca della verità sulle stragi e di quei mandanti esterni che hanno voluto ed ordinato la morte di Borsellino, è sicuramente quella di Agnese Piraino Leto, la moglie del giudice.
Da quando una bomba le portò via il marito con il quale aveva condiviso una vita blindata e perennemente sotto scorta, ha sempre lottato per la ricerca della verità, puntando anche il dito, quando era necessario farlo, contro chi aveva voltato le spalle allo Stato e a Paolo.
Basti pensare a quel che rispose all’ex ministro degli Interni Mancino che, subito dopo i funerali, mise a disposizione le forze dello Stato (“L’uccisione di mio marito è una dichiarazione di guerra contro la mia città. Se è guerra, guerra sia: inviate i militari per presidiare il territorio e difendere gli obiettivi a rischio”).
Agnese si espresse in maniera chiara contro chi, all’indomani della strage di Capaci, abbandonò ulteriormente suo marito, rimasto a combattere una battaglia che da solo non poteva vincere: “Falcone rappresentava per lui come uno scudo. Senza il quale la sua esposizione è aumentata. Da qui probabilmente nasce l’esigenza di mio marito in quei 57 giorni di annotare scrupolosamente spunti di indagine, valutazioni, memorie personali di cui si riprometteva di parlare con i pm allora in servizio alla Procura di Caltanissetta, titolari dell’inchiesta su Capaci. Nessuno però in quei lunghi 57 giorni lo chiamò mai”. E in quella sua denuncia c’erano anche le considerazioni sull’agenda rossa: “E’ possibile che nelle pagine dell’agenda rossa, usata per i progetti di lavoro e per annotare i fatti più significativi, avesse scritto cose che non voleva confidare a noi familiari. Quell’agenda è stata recuperata sul luogo della strage ma, come si sa, è scomparsa. Se esistesse ancora e se fosse nelle mani di qualcuno potrebbe essere usata come un formidabile strumento di ricatto”.
Nel corso del tempo la vedova Borsellino ha anche raccontato che il giorno prima di morire il marito le confidò inquietanti convinzioni sulla propria fine, che considerava imminente: “Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere. Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo”. Il riferimento ai colleghi da parte di Paolo Borsellino è testimone di quell’isolamento interno alla Procura che lo stesso magistrato aveva raccontato ai suoi più stretti collaboratori. E lo stesso fece in famiglia. Diceva Agnese: “Posso solo dire, per esserne stata testimone oculare, che mio marito si adirò molto quando apprese per caso dall’allora ministro Salvo Andò, incontrato all’aeroporto, che un pentito aveva rivelato: è arrivato il tritolo per Borsellino. Il procuratore Pietro Giammanco, acquisita la notizia, non lo aveva informato sostenendo che il suo dovere era solo quello di trasmettere per competenza gli atti a Caltanissetta”.
Il magistrato Paolo Borsellino © Shobha
“Quella volta – ricordava in una nota dell’Ansa la signora Agnese – ebbe la percezione di un isolamento pesante e pericoloso. Non escludo che proprio da quel momento si sia convinto che Cosa nostra l’avrebbe ucciso solo dopo che altri glielo avessero consentito”.
Parole difficili da dimenticare: “Paolo mi disse: ‘materialmente mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno’. Queste sono parole che sono scolpite nella mia testa, e sino a quando sono in vita non potrò dimenticarle”.
Ecco. Borsellino disse alla moglie che a volerlo morto sarebbero stati “altri”. Chi erano questi altri?
Bisogna scavare sempre tra le pieghe delle dichiarazioni raccolte nel corso del tempo, tanto dalla stampa quanto dalla magistratura.
Quando Borsellino parlò di trattativa e Subranni punciuto
Nella sua ultima intervista al Corriere della Sera aveva affermato che “ci furono due trattative Stato-mafia. E mio marito fu ucciso per la seconda. Quella che doveva cambiare la scena politica italiana”.
Di certi argomenti Agnese Piraino Leto riferì anche davanti ai magistrati di Caltanissetta, nel 2009, spiegando anche il motivo per cui soltanto dopo tanto tempo decise di mettere a verbale certe dichiarazioni davanti al Procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e al procuratore aggiunto Domenico Gozzo (“Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”).
Ai magistrati riferì che “dopo la strage di Capaci mio marito disse che c’era un dialogo in corso già da molto tempo tra mafia e pezzi deviati dello Stato. Paolo mi disse che materialmente lo avrebbe ucciso la mafia ma i mandanti sarebbero stati altri”. E ancora: “Mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: ‘Ci possono vedere a casa’”. “Mi disse che il gen. Subranni era ‘punciuto’ – (punto in un rito di affiliazione a Cosa nostra, ndr) – Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
L’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli con in mano la valigetta del magistrato Paolo Borsellino
Agnese Borsellino e l’agenda rossa
Alla luce di tutti questi elementi, delle plurime indicazioni date dalla signora Agnese è più che lecito pensare non solo che abbia raccolto le confidenze del marito, ma che anche fosse a conoscenza diretta di ciò che il marito aveva scritto nell’agenda.
Sempre ai magistrati, infatti, la vedova Borsellino aveva confermato che il marito in quell’agenda “annotava gli spostamenti, le persone che doveva incontrare e, comunque, tutto ciò che atteneva al suo lavoro”. Dunque aveva specificato che “Paolo teneva due agende, una delle quali, come è noto, si trovava a casa mia quando fu eseguito l’attentato ed era di colore grigio, mentre l’altra, di colore rosso, gli era stata regalata dai Carabinieri per le festività natalizie dell’anno precedente”.
Un dettaglio importante è che il magistrato iniziò ad usare entrambe le agende “subito dopo la strage di Capaci”. “Infatti – diceva Agnese Borsellino – ritengo che Paolo in quel periodo pensasse di avere poco tempo a disposizione per approfondire le piste investigative che stava seguendo e, pertanto, annotava tutto nell’agenda rossa per evitare, non soltanto che potessero sfuggirgli elementi utili al suo lavoro, ma anche per annotare quelle riflessioni o notizie che temeva di non poter comunicare ad altri ed in particolare alla Procura di Caltanissetta prima di essere ucciso”.
Possibile, dunque, che Paolo Borsellino abbia indicato alla moglie che proprio in quell’agenda, qualora gli fosse successo qualcosa, c’erano gli elementi per comprendere chi lo avrebbe voluto uccidere?
Abbiamo ragione di credere che non sia affatto inverosimile una tale ipotesi.
Del resto Borsellino era perfettamente consapevole di quale sarebbe stato il suo destino. “Prova ne sia – ha raccontato la stessa Agnese – che, pochi giorni prima di essere ucciso, si confessò e fece la comunione”.
L’ex premier, Silvio Berlusconi, e l’ex senatore, Marcello Dell’Utri © Imagoeconomica
I mandanti delle stragi
Personalmente siamo convinti che dietro al mistero dell’agenda rossa vi è il segreto delle stragi e dei mandanti esterni.
Come ha ricordato Scarpinato negli anni passati, quando fu audito davanti alla Commissione regionale antimafia, “se Borsellino fosse andato a Caltanissetta con l’agenda rossa sarebbe scoppiata la bomba”.
Di lui si fidavano collaboratori di giustizia importantissimi come Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. Il primo “anticipò a Falcone che avrebbe parlato di Contrada (ex numero due del Sisde poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) e il braccio destro di Borsellino, Carmelo Canale, ha raccontato di essere stato presente a un incontro tra Falcone e Borsellino in cui era stato detto che appena Mutolo avesse deciso di collaborare avrebbero messo le manette a Contrada”.
Il secondo, appartenente alla mafia di Caltanissetta, il quale era a conoscenza del piano segreto di destabilizzazione che era stato discusso a Enna dai vertici regionali della mafia nel 1991 e che aveva avuto il suo incipit con la strage di Capaci. Ed anche questi, come Mutolo, aveva chiesto espressamente di parlare con Borsellino e non aveva ancora messo a verbale quanto sapeva.
A questi elementi si aggiunge il dato che Borsellino avrebbe dovuto recarsi davanti alla Procura della Repubblica di Caltanissetta per dichiarare quel che aveva appreso sulla strage di Capaci. Ed è facile ritenere che avesse compreso cosa c’era dietro la strage di Capaci e che dietro l’eccidio c’erano entità esterne.
Ma non solo.
Perché appena due giorni prima la strage di Capaci, Paolo Borsellino rilasciò un’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000.
In quella video intervista i due giornalisti francesi stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Publitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi. Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi.
Il magistrato Giovanni Falcone © Archivio Letizia Battaglia
L’appunto di Falcone su B.
Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in qualche maniera stessero monitorando le vicende che ruotavano attorno all’ex Cavaliere emerge anche da un altro dato.
Tempo fa fu ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”.
Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falcone tenne con il collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.
E salta all’occhio come quei nomi contenuti nell’appunto non siano affatto di poco conto. Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni Settanta. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell’Utri, considerato il “tramite, l’intermediario di alto livello fra l’organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore.
E’ ampiamente riconosciuto che, dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino fosse il magistrato di punta della lotta alla mafia. Ed è facile pensare che fosse al corrente delle stesse cose. Sapeva dei vecchi affari di Cosa nostra che aveva impiantato una base al Nord, a Milano, negli anni Settanta. E quelle “storie” erano tutt’altro che vecchie o prive di fondamento. E lo dimostra proprio con quell’intervista ai due giornalisti francesi, in cui si sottolinea i rapporti che Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, a Milano, avrebbero intrattenuto con personaggi delle famiglie palermitane.
Nomi chiave.
Per comprendere ulteriormente ricordiamo le motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Dell’Utri laddove è messo nero su bianco che per diciotto anni, dal ’74 al ’92, l’ex senatore è stato il garante dell’accordo tra Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari.
Se Borsellino aveva intuito tutto questo è ovvio che era divenuto un ostacolo non solo per la trattativa in corso, di cui era stato messo al corrente, ma anche un problema per chi stava preparando la discesa in campo di Forza Italia. Un nuovo potere che sicuramente il giudice avrebbe messo quantomeno sotto osservazione, se non addirittura indagato. Un potere che in Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi aveva la massima espressione.
Quegli stessi Dell’Utri e Berlusconi che oggi sono indagati dalla Procura di Firenze (con l’indagine condotta dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, assieme al pm Luca Turco) come mandanti esterni delle stragi del 1993.
Il ‘capo dei capi’ di Cosa nostra, Totò Riina © Shobha
Un’altra storia, forse, ma non troppo. Perché come mi disse Totò Cancemi quando lo intervistammo “Totò Riina fu accompagnato per la manina” nell’organizzazione delle stragi. E fece proprio i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Inoltre aggiunse che la strage di via d’Amelio fu certamente organizzata, per ordine di Totò Riina, e che nella stessa ebbero un ruolo i fratelli Graviano, ma in particolare Salvatore Biondino.
Una figura chiave, quella dell’autista di Riina e capomandamento di San Lorenzo, in quanto in diretto contatto con i Servizi segreti. Cancemi fece intendere senza mezzi termini che Biondino avesse le spalle coperte dai servizi segreti dello Stato italiano per l’esecuzione del delitto.
E’ sempre Cancemi ad aver riferito che il Capo dei Capi “era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”.
Ecco perché è avvenuta la strage di via d’Amelio. Una strage di Stato che ha fatto crollare definitivamente la Prima Repubblica dando vita e forma alla Seconda.
I processi che si sono fin qui celebrati hanno offerto una parte della verità ed è chiaro che la scomparsa dell’agenda rossa sia strettamente legata al depistaggio, al “nodo” dei mandanti esterni. Le sentenze del “Borsellino quater” e del “Borsellino Ter” affrontano anche questi argomenti.
Un processo, il “ter” (istruito completamente dal magistrato Nino Di Matteo, assieme ad Anna Maria Palma, e che portò alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale) in cui emerse, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l’esistenza della trattativa Stato-Mafia.
E’ sempre in questo processo che si fa riferimento (così come riferiva sempre Cancemi) al dato per cui Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa nostra”.
Da questi elementi Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi proseguì la ricerca della verità sui mandanti esterni nelle stragi con le indagini su Bruno Contrada per concorso in strage o quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri).
A sinistra l’ex dirigente del Sisde, Bruno Contrada © Archivio Letizia Battaglia
L’approfondimento sui Servizi
Per quanto riguarda l’indagine sull’ex dirigente del Sisde venne scandagliata l’ipotesi sulla sua possibile presenza in via d’Amelio il giorno della strage.
E’ da quelle indagini che si affrontò il problema della sparizione dell’agenda rossa prima ancora del rinvenimento della fotografia del capitano Arcangioli. “Il mio impegno – aveva spiegato Di Matteo audito nel processo sul depistaggio nel febbraio 2020 – era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose”.
“Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti – aveva ricostruito il magistrato – Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”. “Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura – spiegò ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno (Sinico e Raffaele Del Sole, ndr). Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
La presunta confidenza di Di Legami a Sinico raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio. Questo documento sarebbe però stato distrutto.
Logica vorrebbe che se Di Legami non c’entra nulla allora è qualcun altro ad aver dichiarato il falso, ma sul punto poi non si è andato più oltre.
E lo stesso vale per Bruno Contrada il quale ha sempre sostenuto di aver appreso della strage (circa un minuto dopo l’esplosione secondo i tabulati) mentre si trovava in mare aperto a bordo dell’imbarcazione dell’amico Gianni Valentino che ha sempre confermato il suo racconto.
Tornando a parlare delle dichiarazioni di Elmo Di Matteo aveva anche ricordato che questi “disse di aver visto in via d’Amelio, assieme a Contrada, anche Narracci, il Capo centro Sisde di Palermo. Per noi non era un nome qualsiasi perché il suo numero di telefono personale era stato trovato anche in un bigliettino rinvenuto a poche centinaia di metri dal luogo della strage di Capaci. Quando procedemmo con l’individuazione di persona Elmo non lo riconobbe. Quando andai a Palermo seppi che Elmo aveva rilasciato una dichiarazione in cui diceva che in realtà lo aveva riconosciuto ma di non aver verbalizzato il riconoscimento perché indotto da un ufficiale di polizia giudiziaria che era presente in quel giorno”.
Da sinistra: il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, e il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo © Imagoeconomica
Alfa e Beta
Anche su Berlusconi e Dell’Utri ci furono importanti approfondimenti. E i due magistrati, Di Matteo e Tescaroli, incontrarono non poche resistenze.
“Ci fu una riunione della Dda e fu imbarazzante – aveva raccontato sempre Di Matteo davanti al Tribunale di Caltanissetta – Già si sapeva che la riunione era stata convocata per valutare l’eventuale iscrizione di Berlusconi e Dell’Utri nel registro degli indagati. Il procuratore di allora Giovanni Tinebra dopo una lunga e animata discussione diede l’ok anche se non era d’accordo, ma disse anche che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto. Certamente nelle indagini sui mandanti esterni non ci fu vicino. Posso dire che può essere questo un modo di non sostenere e non partecipare, prendendo le distanze all’interno e all’esterno. Quando chiedevamo accertamenti alla Dia di Roma e alle altre Procure partivano le deleghe ma le sole firme erano la mia e quella del collega Tescaroli, ovvero di due sostituti. E questo certo non deponeva bene a favore dell’indagine”.
Rispondendo ad una domanda dell’avvocato Fabio Repici aveva anche ricordato che Tinebra cambiò la sua opinione sulla collaborazione di Cancemi proprio quando fece i nomi di Dell’Utri e Berlusconi: “Non c’è dubbio che fino a quando Cancemi non fece quel riferimento e su quanto si disse nella riunione a casa di Guddo il Procuratore aveva una valutazione positiva. Da quel momento in poi colsi un cambio. Che vi fu un atteggiamento che, rappresentava lui anche essere l’atteggiamento di Mori, ma non so se sia vero, di scaricare Cancemi. E una volta fece anche la battuta dicendo che: ‘questo si era messo a calunniare’. Ma noi volevamo prima fare gli accertamenti necessari”.
Tutti questi elementi dimostrano in maniera chiara come, contrariamente a quanto sostiene l’avvocato Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino, il pm Nino Di Matteo non ha nulla a che vedere con il depistaggio ordito sulla strage di via d’Amelio.
Accuse dalle quali il fratello del giudice, Salvatore Borsellino, fondatore del movimento delle Agende Rosse, ha preso pubblicamente le distanze in più occasioni difendendo sia Di Matteo che l’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato.
Il fratello di Paolo Borsellino e fondatore delle Agende Rosse, Salvatore © Deb Photo
Che Di Matteo sia tra quei magistrati che più di tutti si è avvicinato alla verità sulle stragi viene dimostrato anche dalla propria storia. Non si possono dimenticare gli importanti risultati raggiunti nei processi sulle morti dei magistrati come Chinnici, l’omicidio del giudice Antonino Saetta, con condanne per mafiosi, politici e colletti bianchi.
Proprio per questa ostinazione nella ricerca della verità Di Matteo è stato più volte osteggiato anche dai più alti vertici della magistratura, subendo l’apertura di un indecente provvedimento disciplinare (da cui è stato prosciolto) e una lunga serie di clamorose bocciature da parte del Csm che gli preferì colleghi con meno esperienza e titoli.
Non va dimenticato lo stillicidio di intimidazioni da lui ricevute fino ad arrivare alla condanna a morte decretata direttamente dal Capo dei capi, ormai deceduto, Totò Riina (“Ed allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più…– e poi ancora – Perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare… gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile… ad ucciderlo… un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo partivamo la mattina da Palermo a Mazara, c’erano i soldati poverini a fila indiana a quel tempo”).
Parole che si sono rafforzate quando Vito Galatolo, figlio di uno dei capimafia più importanti di Palermo, ha iniziato a collaborare con la giustizia. L’ex boss dell’Acquasanta, pentitosi nel novembre 2014, aveva parlato di un progetto di attentato, mai revocato, deliberato sin dalla fine del 2012. Interrogato dai pm aveva riferito di una richiesta inviata con una lettera da Matteo Messina Denaro letta in un summit ristretto a cui partecipò assieme al suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio. Inoltre aveva spiegato anche il motivo per cui il pm doveva essere ucciso: “Si era spinto troppo oltre”. Quindi aveva raccontato dell’arrivo, nel capoluogo siciliano, di centocinquanta chili di tritolo, provenienti dalla Calabria, proprio per uccidere il magistrato.
Ed i mandanti sarebbero “gli stessi di Borsellino”.
E disse anche che il boss di Castelvetrano indicò che volere quella morte sarebbero stati “gli stessi di Borsellino”. Certo è che, secondo le indagini della Procura di Caltanissetta, quel progetto di morte resta “ancora operativo”.
A trent’anni dalle stragi l’amarezza più grande è che quei magistrati che hanno impegnato sé stessi, e si impegnano nella lotta ai Sistemi criminali, senza guardare in faccia a nessuno (poteri, istituzioni o apparati dello Stato che siano), vengono tutt’oggi delegittimati ed isolati.
Come accadeva a Falcone e Borsellino. Senza accorgersi che così facendo la ricerca della verità non solo viene messa in pericolo, ma rischia di sparire nell’oblio.
da Antimafiaduemila
https://www.antimafiaduemila.com/rubriche/giorgio-bongiovanni/90697-strage-di-via-d-amelio-la-signora-agnese-e-l-agenda-rossa-di-paolo-borsellino.html