di Jeff Hoffman
La sera del 24 marzo 1999, 25 anni fa, violando la legalità internazionale e la Carta dei Diritti ebbe inizio il bombardamento a tappeto della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, società multiconfessionale, multietnica e antimperialista.
“E’ un intervento umanitario”, annunciarono dalla Televisione pubblica italiana.
“I serbi continuano a morire di cancro derivante dall’uso di munizioni all’uranio impoverito da parte delle forze NATO e, purtroppo, siamo al primo posto in Europa per numero di persone affette da cancro ai polmoni”, ha dichiarato il presidente serbo durante la cerimonia per il 25° anniversario dei bombardamenti, aggiungendo che invece di distruggere la Serbia l’Alleanza Atlantica stracciò il diritto internazionale.
L’operazione della NATO durò 78 giorni durante i quali presero di mira case, ponti, fabbriche, ospedali, media statali, partiti politici e ambasciate.
A decretare l’inizio del nuovo corso storico dell’Alleanza Atlantica guidata da Washington ci pensarono i governanti di Regno Unito, Germania, Francia, Canada, Spagna, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Turchia, Paesi Bassi e Belgio e il tanto acclamato governo di sinistra guidato da Massimo D’Alema e composto da Ulivo, Partito dei Comunisti italiani, Unione dei Democratici per la Repubblica e Indipendenti.
I cacciabombardieri della NATO decollarono dalla base di Aviano, Friuli-Venezia Giulia.
Stando all’ufficio stampa della NATO furono 2.300 le sortite di combattimento effettuate dai militari.
Ai cittadini serbi che erano stati espulsi dai mercenari dell’UCK durante i disordini sostenuti dagli Stati Uniti, fu impedito di tornare nelle loro case. Cinque anni dopo, dal 17 al 19 marzo 2004, la missione KFOR della NATO ha proseguito il lavoro lasciando che più di 117 chiese e monasteri ortodossi in Kosovo e Metohija venissero distrutti, permettendo una vera e propria pulizia etnica nel cuore dell’Europa.
Pochi anni prima, nel 1995, Bill Clinton, Jaques Chirac e Slodoban Milosevic firmarono nell’Ohio l’Accordo di Dayton che sanciva l’intangibilità delle frontiere e due entità interne allo stato di Bosnia Erzegovina, a riprova che la strategia occidentale era già allora quella di siglare accordi per poi tradirli sistematicamente come gli Accordi di Minsk.