di Elisa Angelone
In una pubblicazione uscita ieri, 26 aprile, sul Washington Post si cerca di ridimensionare l’immagine del famigerato battaglione Azov come di un’unità ultranazionalista ucraina -quale di fatto è- proponendone le gesta come non più ideologicamente motivate, bensì come esempio di un’elevata capacità di combattimento per amor di patria. Insomma, l’epiteto di “nazisti” viene, come di consueto, apertamente negato o, quantomeno, relegato nel passato. Un passato che ora non rispecchierebbe più lo spirito del noto battaglione, bandito in Russia come gruppo terrorista e ora disperatamente alla ricerca di nuove reclute in vista dell’imminente controffensiva di primavera. Controffensiva sul cui successo persino Washington ha espresso qualche dubbio, ma che -come scrive il WP- è cruciale per Kiev per dimostrare di essere ancora degna del supporto occidentale.
Secondo quanto dichiarato dal portavoce e comandante ad interim della brigata, Bogdan Krotevych, il battaglione spera di reclutare almeno 6,500 nuovi combattenti, nonché di riaccogliere i circa 1,000 compagni ora prigionieri in Russia. Lo stesso Krotevych è stato recentemente liberato in occasione di uno scambio di prigionieri mediato da Turchia e Arabia Saudita.
Secondo quanto riferito da Krotevych al quotidiano statunitense, il reclutamento starebbe procedendo bene, tuttavia i cosiddetti lettori di Kant starebbero cercando di “spiegare alla popolazione civile che abbiamo bisogno di loro per aiutarci a liberare i territori [occupati]”. Che Kiev sia in generale a corto di combattenti lo dimostrano anche i numerosi video che circolano in rete che mostrano soldati ucraini prelevare civili con la forza direttamente per strada.
Pur rammaricandosi per la reticenza da parte dei sostenitori occidentali a fornire armi al battaglione Azov, il portavoce Krotevych ha riferito al WP la strategia che potrebbe essere adottata nella controffensiva: traendo spunto dalla prima guerra russo-cecena, l’obiettivo sarebbe quello di sequestrare piccoli insediamenti russi e usarli come merce di scambio per liberare i territori.