di Gionata Chatillard
È una pioggia di sanzioni quella che si sta abbattendo sui serbi di Bosnia. Washington e Bruxelles stanno progressivamente alzando il tiro contro la classe dirigente di questa comunità, accusata di mettere il bavaglio ai media indipendenti e di vulnerare diritti fondamentali per smantellare lo status quo sancito dagli Accordi di Dayton del 1995.
Già a gennaio di quest’anno erano partite le prime sanzioni statunitensi contro Milorad Dodik, leader nazionalista serbo che oggi siede sulla poltrona della presidenza tripartita a Sarajevo. Un paio di mesi fa, nel mirino di Washington è poi finito tutto il suo entourage, e negli ultimi giorni anche la sua famiglia e le aziende a lei collegate. Le sanzioni, pesantissime, mirano a destabilizzare ed emarginare economicamente il Governo della Republika Srpska, entità che rappresenta la comunità serba nel complesso puzzle etnico della Bosnia.
Alle accuse di corruzione che arrivano dall’Occidente, Dodik ha risposto ricordando a Joe Biden che forse, sulla lista nera della Casa Bianca, farebbe meglio a inserire il nome di suo figlio Hunter, invece di occuparsi di ciò che succede a migliaia di chilometri dalle sue frontiere. Per il leader nazionalista, comunque, le sanzioni “imperialiste” statunitensi non faranno altro che aumentare la probabilità che la Republika Srpska arrivi presto all’indipendenza.
Agli occhi del blocco occidentale, a pesare sul curriculum di Dodik c’è soprattutto la sua amicizia con la Russia. Il leader nazionalista, d’altronde, ha apertamente dichiarato che la Bosnia farebbe meglio ad aderire ai BRICS piuttosto che alla NATO. E non a caso, Dodik ha annunciato che nei prossimi giorni si recherà a Mosca, dove spera di essere ricevuto personalmente da Vladimir Putin.