di Gionata Chatillard
Aveva parlato di “prigione geografica” il primo ministro etiope Abiy Ahmed, quando -lo scorso ottobre- annunciò di voler recuperare uno sbocco sul mare che manca al paese africano dal lontano 1993, ovvero dall’indipendenza dell’Eritrea. Il premier aveva avvertito che per Addis Abeba si trattava di una “questione esistenziale”. Una questione che neanche 3 mesi dopo sembra già essere stata risolta, con un accordo raggiunto tra il Governo etiope e le autorità del Somaliland. L’autoproclamata repubblica africana, che dal 1991 rivendica l’indipendenza dalla Somalia, ha infatti concesso ad Addis Abeba la gestione del porto di Berbera, scalo strategico del Golfo di Aden a un tiro di schioppo dal Mar Rosso. In cambio, il Somaliland otterrà una partecipazione nelle Ethiopian Airlines e, soprattutto, il primo riconoscimento ufficiale da parte di una nazione sovrana, arrivato dopo ben 3 decenni di tentativi falliti.
Come non poteva essere altrimenti, l’intesa ha scatenato l’immediata reazione della Somalia, che ha subito richiamato il proprio ambasciatore da Addis Abeba accusando l’Etiopia di violare la sua sovranità territoriale. Ad indispettire ulteriormente Mogadiscio c’è poi il fatto che, proprio pochi giorni fa, il Governo somalo e le autorità del Somaliland avevano deciso di riavviare le negoziazioni per risolvere le loro controversie. Negoziazioni che dopo l’acccordo portuale con l’Etiopia non solo rimangono in sospeso, ma rischiano di deragliare per sempre, se non di sfociare direttamente in un conflitto. Non a caso, Mogadiscio si è già detta disposta a difendere la propria unità territoriale e a fare ricorso a organismi internazionali come l’ONU e l’Unione Africana.
Ma oltre alla Somalia, ad essere indispettita dall’intesa potrebbe essere anche la Cina. Se da una parte un rafforzamento dell’Etiopia potrebbe anche essere letto in chiave positiva da Pechino, dal momento che il paese africano è appena entrato a far parte dei BRICS, dall’altra l’accordo con il Somaliland permetterà ad Addis Abeba di bypassare Gibuti per i traffici commerciali, compresi quelli della Nuova Via della Seta. Dai porti di questo piccolo paese sullo stretto di Bab el Mandeb, che ospita l’unica base militare cinese all’estero, passa infatti attualmente circa il 90% delle importazioni e delle esportazioni etiopi. Servizi per cui Addis Abeba sborsa ogni anno 1 miliardo e mezzo di dollari al Governo locale. Una cifra che, se venisse meno, potrebbe innescare conseguenze imprevedibili in un quadrante già profondamente destabilizzato.
Pechino, inoltre, non può che guardare con diffidenza all’accordo fra l’Etiopia e il Somaliland, dal momento che quest’ultimo è uno dei grandi sostenitori di Taiwan a livello internazionale. E infine, ad aggiungere ulteriore complessità al quadro ci sono le denunce dell’Eritrea, che ha apertamente accusato gli Emirati Arabi Uniti di usare l’Etiopia come una pedina per controllare almeno una parte del tumultuoso Mar Rosso, dove la tensione è già alle stelle. Un intricatissimo puzzle geopolitico dunque in cui lo schieramento dell’Etiopia gioca un ruolo determinante.
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