di Margherita Furlan
Aldo Moro, il 3 ottobre del 1959, a Milano, aveva allora pubblicamente esposto il fine ultimo della politica: “Lo Stato democratico, lo Stato del valore umano, lo Stato fondato sul prestigio di ogni uomo e che garantisce il prestigio di ogni uomo, è uno Stato nel quale ogni azione è sottratta all’arbitrio e alla prepotenza, in cui ogni sfera d’interesse e di potere obbedisce a una rigida delimitazione di giustizia, a un criterio obiettivo e per sua natura liberatore; è uno Stato in cui lo stesso potere pubblico ha la forma, la misura e il limite della legge, e la legge, come disposizione generale, è un atto di chiarezza, è un’assunzione di responsabilità, è un impegno generale e uguale”. Il 9 maggio 1978 Aldo Moro fu ucciso, dopo 55 giorni di prigionia, con “un piano articolato” composto da “operazioni d’intelligence internazionali, trattative tra istituzioni e terroristi, patti con la malavita organizzata” [Paolo Cucchiarelli cit.]. L’ex presidente della Democrazia Cristiana scrisse in una delle sue ultime lettere a Benigno Zaccagini, allora Segretario del partito: “Pensateci bene cari amici, siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopodomani”. E noi a quel dopodomani non abbiamo voluto guardare dato che il Paese Italia oggi patisce la presenza di almeno 120 basi dell’Alleanza atlantica – all’interno delle quali opera l’esercito statunitense -, e di un numero imprecisato di basi segrete e di armi nucleari, in particolare modo a Ghedi e ad Aviano.
Oggi per quella che l’Unione europea definisce missione difensiva nel Mar Rosso c’è già un nome, Aspides, forse in onore al cobra, il serpente velenoso venerato nell’antico Egitto. Le prime unità da guerra saranno fornite da Francia, Germania e Italia; a noi è stato chiesto il comando generale delle operazioni e la collaborazione con Prosperity Guardian, la missione delle flotte navali USA e britanniche. Uno solo è lo scopo reale: proiettarsi nel Corno d’Africa e in Medio Oriente a difesa degli interessi e dei profitti delle transnazionali dei combustibili fossili, non della Patria, non del cittadino, non della presunta democrazia, non della Costituzione, mentre l’OMS dichiara guerra all’agricoltura tradizionale, in nome dello scontato, e ormai banale, cambiamento climatico. Una scelta imposta, quella di Roma, che pur tuttavia alcuni definiscono patriottica, ossia con il fine della salvezza dell’Italia. Sarà dunque che patriottica è anche la scelta d’inviare all’Ucraina aiuti militari, cioè armi, e uomini, per un valore stimato intorno al miliardo di euro finora – bazzecole per le famiglie italiane che vorrebbero fare figli, anche in nome della Patria. Molti sono d’altronde i poteri a cui gli italiani non hanno saputo rinunciare nei decenni (nei secoli) e che hanno generato i cosiddetti sistemi integrati: senza mito fondativo, senza simbologia eroica, senza nobiltà e spirito di corpo, senza credenze comuni che creano fiducia diffusa, lo Stato nasce colonizzato e parcellizzato, incapace di generare autorità, lasciata alle organizzazioni criminali, in alto e in basso, vere e proprie istituzioni parallele, entrate nei gangli delle istituzioni e in grado di dialogare con i veri poteri del mondo. Vista la situazione, appare oramai dunque evidente che la guerra non è vicina. La guerra è già qui, caratterizzata da tratti diversi rispetto al passato perché di guerra ibrida si tratta, e comprende anche le armi biologiche, seppure vietate dai trattati internazionali; soprattutto prevede la paura, il tracciamento neuronale – e quindi il controllo e la manipolazione del pensiero nonché delle emozioni, attraverso diverse vie -, il distanziamento antropico come cardini della nuova forma di governo universale, che ha chiaro intento di reprimere il senso eterno della vita.
Inutile parlare di sovranità dunque, termine obsoleto e non più racchiuso nel dizionario dell’apocalisse ultima. Si svuotano i granai e si riempiono gli arsenali. Alea iacta est. Il dado è tratto. Ciò che disse Cesare prima di varcare il Rubicone e iniziare la guerra contro Pompeo lo hanno ripetuto duemila anni dopo i Capi di Stato maggiore della Difesa dei trentuno Paesi membri della NATO con la neo accolta Svezia. Questa volta sarà guerra totale, contro Mosca e poi contro Pechino. E se sarà necessario, generali e ammiragli si dichiarano pronti a usare le più sofisticate tecnologie di distruzione di massa. A muoversi sulla scacchiera internazionale è la magica pedina del Medio Oriente, cuore del settimo sigillo, e il nuovo, tremendo, nemico da abbattere è l’Iran, alleato, per l’appunto, di Russia e Cina. E’ in atto una spasmodica corsa verso il riarmo globale e la NATO si candida a divenire motore della ricerca e dello sviluppo di tecnologie di morte, in partnership con le grandi holding del complesso militare-industriale e con un ampio numero di attori della società “civile” (università, centri di ricerca, start up, agenzie spaziali nazionali e internazionali, etc). Dall’altra parte del mondo, Russia, Cina, Iran sono pronte alla reazione. Ovunque un’aria di animazione sospesa, in attesa di chissà quale catastrofe, cui solo forse seguirà catarsi. Il vuoto di potere washingtoniano – reale o percepito – sommuove la tettonica delle strategie geopolitiche. Sulla scena del teatro spuntano o riemergono nuovi e antichi soggetti che raccontano storie di umiliazioni da redimere, offese da sanare, riscatti promessi. I paradigmi coloniali e post coloniali sono esauriti. L’illusione di poter trattare chiunque come bambini bisognosi di patronati, riflessa nella certezza di avere a che fare con tribalismi assortiti da incentivare per confermarsi superiori, cade di fronte a concetti d’identità differenti, ma più vicini alle verità dello spirito dei popoli. Qui oggi si gioca la scommessa del futuro, lungo un percorso costellato anche di putsch e di guerra a varia intensità. Oggi suona la campana per tutti.
Il mondo “altro” è quello che il conflitto in Ucraina, sospinto dalle provocazioni post guerra fredda e dalla mai accantonata dottrina Brzezinski, ha contribuito a plasmare. Spartiacque di dinamiche già in corso ed esso stesso “produttore di storia”, ha messo drasticamente in discussione il consensus washingtoniano. A Levante i BRICS si allargano e attirano profitti economici, e la Shanghai Cooperation Organisation (Cina, Russia, India, Pakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Kazakistan, Uzbekistan) – che ha da poco visto l’ingresso dell’Iran – comprende già il 40% della popolazione mondiale e il 30% del PIL globale. “Il fatto che si tratti di un consesso che non si riconosce nei valori e nella visione eurocentrica del mondo non sarà certo motivo per starne alla larga”, ha sottolineato Mosca. E’ un processo tumultuoso quello che stiamo vivendo, denso di incognite, da un lato, e di opportunità, dall’altro, come ogni fase storica di assestamento dei macro equilibri di potenza. Un processo che, è bene ricordare, è ancora guidato dai vecchi “padroni universali”, che volano come pipistrelli sul mondo intero, questa volta semplicemente divisi in due macro gruppi, coloro che puntano alla guerra e chi preferisce, verosimilmente, concentrarsi nel transumanesimo. L’uomo qualunque non può far altro che girare attorno a se stesso a 30 km/h. I destini del mondo non lo riguardano. Perché non ha ascoltato quando poteva sentire, non ha visto quando poteva vigilare, non ha compreso quando poteva discernere.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, lo zar Nicola II convocò all’Aja due Conferenze internazionali per la Pace, nel 1899 e nel 1907, per «trovare gli strumenti più efficaci per assicurare a tutti i popoli i benefici di una pace reale e duratura». I convegni furono preparati in collaborazione con Papa Benedetto XV, sulla base del diritto canonico, non del diritto del più forte. Al termine di due mesi di lavori, i documenti finali furono firmati da 27 Stati. Il presidente del Partito (repubblicano) radicale francese, Léon Bourgeois, presentò le proprie riflessioni sulla dipendenza reciproca degli Stati e sul loro interesse a unirsi, superando le rivalità. Grazie allo stimolo di Léon Bourgeois, la Conferenza istituì una Corte internazionale di arbitrato per favorire la risoluzione di dispute tra gli Stati per via giuridica invece che per mezzo della guerra. Il testo finale introdusse così il concetto del «dovere degli Stati di evitare la guerra». Per impulso di un ministro dello zar, Frederic Fromhold de Martens, la Conferenza convenne che durante un conflitto armato le popolazioni e i belligeranti debbano essere tutelati dai principi frutto «delle consuetudini affermate tra nazioni civilizzate, delle leggi dell’umanità e delle esigenze della pubblica coscienza». Riassumendo, i firmatari s’impegnavano a smettere di comportarsi da barbari. Nel 1914 il sistema fallì perché gli Stati rinunciarono alla sovranità firmando trattati di Difesa che imponevano di entrare automaticamente in guerra in determinate circostanze, prescindendo dalla valutazione di ogni singolo Stato. Ma fu sulla base delle idee di Nicola II, ucciso insieme a tutti i membri della sua famiglia, e di Léon Bourgeois che, dopo la prima guerra mondiale, fu istituita la Società delle Nazioni, a cui non parteciparono gli Stati Uniti. Fu un fallimento: il Regno Unito rifiutava di considerare suoi pari i popoli colonizzati. Di nuovo, fin dalla Carta Atlantica del 1942, il presidente statunitense Franklin Roosevelt e il primo ministro britannico, Winston Churchill, si posero il comune obiettivo di instaurare al termine del conflitto un governo mondiale. Gli anglosassoni, che si ritenevano capaci di governare il pianeta, non furono tuttavia d’accordo sul come farlo. Washington non voleva che Londra s’intromettesse nelle faccende dell’America Latina; Londra da parte sua non voleva condividere l’egemonia sull’Impero «dove il sole non tramonta mai». E così il Terzo Reich non fu vinto dagli anglosassoni, ma furono i sovietici a rovesciarlo e a prendere Berlino. Nacquero allora le Nazioni Unite. Ma fin dall’inizio gli anglosassoni non rispettarono gli impegni. Dapprima venne proclamato uno Stato israeliano (14 maggio 1948), senza che ci fosse accordo sui suoi confini; poi l’inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, incaricato di presiedere alla costituzione di uno Stato palestinese, conte Folke Bernadotte, fu assassinato da suprematisti ebrei. Il seggio al Consiglio di sicurezza destinato alla Cina, sul finire della guerra civile cinese fu attribuito al Kuomintang di Chiang Kai-shek invece che a Pechino. Gli anglosassoni proclamarono l’indipendenza della propria zona di occupazione coreana, denominandola Repubblica di Corea (15 agosto 1948); crearono la NATO (4 aprile 1949); infine proclamarono l’indipendenza della loro zona di occupazione tedesca chiamandola Germania Federale (23 maggio 1949). Ritenendo di essere stata beffata, l’URSS se ne andò sbattendo la porta (politica del «seggio vuoto»).
Il Trattato del Nord Atlantico è sì legale, ma il suo regolamento interno vìola la Carta delle Nazioni Unite perché pone le forze armate alleate sotto il comando obbligatorio di un ufficiale statunitense. Tanto che, secondo il primo Segretario generale della Nato, lord Ismay, il vero obiettivo dell’Alleanza da subito non fu preservare la pace, né combattere i sovietici, ma «mantenere gli americani all’interno, i russi fuori e i tedeschi sotto tutela» Quindi, venendo ai nostri giorni, la distruzione del gasdotto Nord Stream, che collegava Russia e Germania, non c’è dubbio essere stata ordinata da Washington in conformità al principio enunciato da lord Ismay. Con la dissoluzione dell’URSS, poi, il sottosegretario statunitense alla Difesa, Paul Wolfowitz, elaborò una dottrina secondo cui per rimanere padroni del mondo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto prevenire a ogni costo l’insorgenza di un nuovo rivale, prima di tutto l’Unione europea. È in applicazione di questa teoria che il segretario di Stato James Baker impose così l’allargamento dell’Unione europea a tutti gli ex Stati del Patto di Varsavia e dell’URSS. L’Unione si è così privata della possibilità di diventare entità politica. Ed è sempre in applicazione di questa dottrina che il Trattato di Maastricht mise la Ue sotto la protezione della NATO. Ed è di nuovo in applicazione di questa dottrina che la Germania e la Francia oggi pagano e armano l’Ucraina. Fino all’ultimo europeo.
Gli Stati Uniti, intanto, violando la propria firma nel Trattato di non Proliferazione nucleare, da decenni accumulano bombe atomiche in cinque Paesi vassalli: nelle basi di Kleine Brogel in Belgio, di Büchel in Germania, di Aviano e Ghedi in Italia, di Volkel nei Paesi Bassi, infine di Incirlik in Turchia. Grazie ai colpi di mano, dicono che ormai è consuetudine! Ebbene, la Russia di Putin, ritenendosi assediata dopo il sorvolo del Golfo di Finlandia da parte di un bombardiere nucleare statunitense, ha a sua volta deciso di aggirare il Trattato di non proliferazione, posizionando bombe atomiche in Bielorussia. Naturalmente la Bielorussia non è Cuba. Piazzarvi bombe nucleari russe non cambia nulla, è solo un messaggio per Washington: “Se volete ripristinare il diritto del più forte, possiamo accettarlo, anche perché i più forti adesso siamo noi”. Indifferente, la NATO l’11 ottobre scorso ha riunito a Bruxelles i ministri della Difesa per ascoltare in videoconferenza l’omologo israeliano affermare che avrebbe raso al suolo Gaza. Nessuno dei ministri, tra loro anche il tedesco Boris Pistorius, ha osato insorgere contro la pianificazione di crimini di massa contro il popolo palestinese. D’altronde, l’onore del popolo tedesco fu già tradito dai nazisti che non esitarono a sacrificarlo. E dunque oggi, in estrema conseguenza, tutti siamo sacrificabili, in mezzo alla follia del panico collettivo che noi abbiamo accettato con lo sguardo supino, rivolto all’ultimo iPhone.
Quello che non ci dicono è che i padroni universali si stanno giocando il tutto per tutto tra disinformazione e sospensione della democrazia per continuare a detenere in abbondanza ciò che per gli altri scarseggerà. Quello che ci dicono è invece che la soluzione non può che dipendere da noi. L’aveva intravista Nicola II, l’aveva ripercorsa John Fitzgerald Kennedy quando, nel 1963, tentando di porre le basi per un mondo equo, disse: “La pace nel mondo, come la pace della comunità, non richiede che ogni uomo ami il suo prossimo; richiede solo che vivano insieme con reciproca tolleranza, sottoponendo le loro controversie a una soluzione giusta e pacifica.” Il 22 novembre dello stesso anno Kennedy fu colpito alla testa mentre attraversava in macchina la città di Dallas.
Però, noi sappiamo che in Etiopia, culla dell’umanità, nell’Afar Triangle, il 24 novembre 1974, il paleoantropologo Donald Johanson scoprì lo scheletro più completo di un antenato umano antico, un australopiteco di oltre 3,2 milioni di anni. La sera stessa aveva già un nome, Lucy, suggerito dalle note di “Lucy in the sky with diamonds” dei Beatles. E sappiamo anche che in Etiopia, dove lo sguardo dell’uomo ritorna alle origini, il reperto è conosciuto come Dinqinesh, che in lingua amharica significa “sei meravigliosa”. Per questo alla fine di questa giornata, dopo avere ascoltato notizie che non fanno rima con la saggezza, musa ai più dispersa e sostituita dal richiamo di sirene denominate armi e denaro, togliete lo sguardo dall’iPhone e guardate tutti le stelle, quelle vere, e portate i vostri pensieri lì, nel cielo, perché lì troverete tutta la bellezza e tutte le risposte alle inquietudini di questi tempi, anche al martirio. Il problema, però, a questo punto, sarà solo per i camerieri seduti nei finti scranni del potere che si sono dimenticati sia delle stelle che della favola dei mutanti.
Noi che siamo seduti qui, consapevoli che siamo esseri meravigliosi esattamente come Dinqinesh, non ricadremo nel panico collettivo, perché abbiamo guardato negli occhi la giustizia e vi abbiamo trovato la dignità.