L’espansionismo d’Israele è nei numeri
di Margherita Furlan (articolo del 2018)
In un solo anno la popolazione israeliana, dalle ultime stime, è salita di quasi il 2 percento, confermando la tendenza degli ultimi anni. Secondo l’Ufficio Centrale delle Statistiche di Tel Aviv, attualmente il Paese ospita 8 milioni abitanti. A pubblicare i dati è il sito Times of Israel, secondo il quale la popolazione israeliana sta crescendo grazie a diversi fattori, non ultimo un vero e proprio boom delle nascite, con 174mila bambini nati in un anno, contro 44mila decessi. Si noti che con l’attuale tasso di natalità, pari a 3,1 bambini per famiglia, entro la metà del secolo, il Paese è in grado di raggiungere una densità di popolazione pari a 700 persone per chilometro quadrato. Una bella cifra se consideriamo che la densità israeliana attuale (400 persone per chilometro quadrato) supera già, se pur di di poco, quella europea (368 persone per chilometro quadrato). Sulla base di questi dati si è calcolato che entro il 2060 la densità della popolazione d’Israele si avvicinerà alle 800 persone per chilometro quadrato. Considerato che oggi si considera clamoroso il fatto che in Cina in ogni chilometro quadrato vivano mediamente circa 600 persone, è evidente che ciò che sta avvenendo in Israele è un passaggio cruciale nella storia del Paese che tanta influenza ha non solo nel Medio Oriente, ma anche nelle politiche degli USA.
E proprio da Washington si vede bene come i cristiani evangelici, grandi elettori del presidente Donald Trump, finanzino ormai circa un terzo della migrazione attuale degli ebrei verso Israele. Lo rivelano le cifre relative al 2017, pubblicate dalla testata digitale israeliana Ynetnews. Su 28mila ebrei che hanno compiuto lo scorso anno l’aliyah, ovvero l’ascesa-ritorno alla “terra promessa”, almeno 8.500 hanno goduto dei fondi raccolti ufficialmente da organizzazioni cristiane, divenute partners dell’Agenzia ebraica per l’aliyah. Fondi che non coprono solo le spese di viaggio, ma anche e soprattutto quelle d’inserimento nella nuova società, con sussidi sociali e aiuti per la costruzione di nuove case. Le due principali sigle di cristiani evangelici impegnate nella causa ebraica sono l’International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj) e l’International Christian Embassy of Jerusalem.
Le somme stanziate sono ragguardevoli. Solo la Ifcj ha riferito all’Associated Press di avere distribuito dal 2014 a oggi 20 milioni di dollari per l’aliyah e di avere donato all’Agenzia ebraica 188 milioni di dollari nei due decenni precedenti. A ciò va aggiunto un impegno finanziario analogo della Christian Embassy, oltre a contributi anonimi. “Dopo duemila anni di persecuzioni e oppressione, oggi abbiamo cristiani che aiutano ebrei. Questa è una cosa straordinaria”, osserva compiaciuto, parlando con l’Associated Press, il presidente dell’International Fellowship, il rabbino Yechiel Eckstein, anche membro del consiglio di amministrazione dell’Agenzia ebraica.
Gli evangelici, che rappresentano il settore in più rapida crescita del cristianesimo mondiale e dominano ormai la famiglia dei protestanti, vedono nel moderno Stato ebraico e nel suo dominio sulla Palestina la condizione per il realizzarsi delle profezie bibliche e per il trionfo finale del Regno di Dio. D’altronde, l’alleanza tra cristiani evangelici e sionisti ha radici profonde nella storia. Fu un evangelico, lord Shaftesbury, un aristocratico inglese, a inventare nel 1839 lo slogan che si trasformò nell’idea guida del sionismo: “Gli ebrei, un popolo senza un Paese, per un Paese senza un popolo”, una frase evidentemente riferita alla Palestina, allora minuscola provincia dell’Impero ottomano, che in realtà aveva la sua popolazione locale. Nel 1890, negli Stati Uniti, i cristiani evangelici costituirono una lobby per la creazione di uno Stato ebraico. Quella iniziativa non ebbe allora alcun risultato. Poi gli evangelici, dopo lunghi decenni di collaborazione sotto traccia, tornarono a presentarsi come i “migliori amici di Israele” (una definizione fatta propria anche dall’attuale premier Benjamin Netanyahu) a partire dal primo governo del Likud guidato da Menachem Begin nel 1979, ed ebbero un ruolo chiave nell’aliyah di oltre un milione di ebrei russi, dopo il collasso dell’Unione Sovietica.
Nell’ultimo anno 30mila nuovi immigranti sono sbarcati in Israele. Un dato molto interessante, se si pensa che nel 1948 la popolazione del neonato Stato ammontava a 806mila persone e che ora dei 15 milioni di ebrei nel mondo il 43 percento risiede in Israele. Cresce infatti la presenza ebraica, attualmente composta da 6 milioni e mezzo di persone, che rappresentano il 74,4 percento dei residenti. La popolazione araba si ferma invece a quasi 2 milioni di persone, cioè il 20,8 percento, mentre altri gruppi etnici, rappresentano il restante 4 percento della popolazione.
Appare dunque evidente l’urgenza d’Israele d’impostare un’espansione territoriale che vada al di là dei territori occupati illegalmente, in primo luogo la Cisgiordania e le alture del Golan, in territorio siriano. È dunque probabile che i primi a farne le spese — dato che i confini di Giordania, Egitto, Arabia Saudita sono molto meno penetrabili, per ragioni politiche oltre che militari — potrebbero essere gli abitanti delle alture del Golan, già occupate, come s’è detto, ma non ancora colonizzate. Altri territori vicini potrebbero diventare oggetto di queste attenzioni. Ma anche il Libano è tra i candidati all’invasione.
Comunque vadano le cose, le cifre dicono che l’espansionismo israeliano assumerà dimensioni tali da squassare ulteriormente gli equilibri già instabili dell’intera regione.