di Margherita Furlan
Pechino è uno dei maggiori “prestatori di ultima istanza” per i Paesi in via di sviluppo, strangolati dal debito. Secondo uno studio della Banca Mondiale e AidData, pubblicato martedì 28 marzo, la Cina ha investito almeno 104 miliardi di dollari tra il 2019 e la fine del 2021 in salvataggi internazionali. Negli ultimi vent’anni Pechino ha erogato invece a 163 Paesi a basso e medio reddito, sotto forma di sovvenzioni e, soprattutto, prestiti, 843 miliardi di dollari (circa 722 miliardi di euro), sei volte la dotazione di bilancio del Piano Marshall, l’immenso programma di aiuti destinato alla ricostruzione dell’Europa, in macerie dopo la seconda guerra mondiale. La Cina predilige rapporti strettamente bilaterali con i Paesi in via di sviluppo, e si pone così come interlocutore alternativo al FMI e alle organizzazioni a guida statunitense ed europea. La politica delle cannoniere non funziona più con i Paesi finanziariamente più fragili e la Cina, soprattutto da quando è stato dato il via alla Nuova Via della Seta, indirizza i prestiti, per lo più commerciali, nel finanziare grandi opere infrastrutturali, il cui numero in pochi anni si è triplicato. Pechino ha così raramente preso il controllo delle infrastrutture promesse, ma ha certamente raccolto consensi geopolitici. Come conferma il caso del porto di Hambantota, nello Sri Lanka. L’infrastruttura, strategica per il traffico marittimo nell’Oceano Indiano, è stata affidata nel 2019 a una compagnia cinese per 99 anni, a seguito dell’incapacità di Colombo di onorare il proprio debito.